E un fantasma si aggira tra le poltrone del teatro milanese: il fantasma dell’espressionismo nell’inquietante opera di Zimmermann
Irrappresentabile, incantabile e ineseguibile. Questo motto è il risultato delle frasi fatte su Soldaten di Zimmermann, come se l’autore fosse caposcuola di una “musica del negativo” talmente complessa da dover ristagnare in secula seculorum sui fogli della partitura. E invece “Si può fare!”, come urla Gene Wilder in Frankenstein Junior. E si fa sempre di più. A Monaco, a Salisburgo e fino al 3 Febbraio anche al Teatro alla Scala, dove il 17 gennaio è stato ben accolto.
Sul palco senza sipario, come all’aperto, stanno gli archi di pietra della Felsenreitschule di Salisburgo, spazio per cui Alvis Hermanis ha concepito questa messinscena. Reitschule è il maneggio, la cavallerizza, che è anche l’originaria destinazione del grande teatro austriaco. Così non sorprende vedere dei cavalli veri che passeggiano dietro le vetrate della struttura. Per Hermanis i soldati del titolo fanno parte di un reparto di cavalleria austriaca a ridosso della Grande Guerra. Che sia dovuta al centenario del conflitto appena trascorso o all’evidente gusto espressionista del libretto, la contestualizzazione è comunque perfetta: il tramonto degli Asburgo, quell’Austria che avanza attraverso “gli ultimi giorni dell’umanità” carica di Freud, Schiele e Schnitzler.
Del resto il fantasma dell’espressionismo si aggira per tutta l’opera. Zimmermann eredita un gusto che da Lenz è passato attraverso Büchner, Wedekind e Berg. Le conseguenze sono da un lato che la partitura ha ricevuto una fortissima coerenza interna. C’è come un tutto sintetico dei primi secondi del Preludio che viene poi intagliato a poco a poco per costruire una scena, un’atmosfera, uno scambio tra i personaggi (Lenz la chiamava “unità dell’azione interiore”). Dall’altro lato c’è la trama, perfino troppo espressionista se si tiene conto che Die Soldaten viene scritta negli anni Sessanta: la giovane borghese Marie precipita in uno stato di corruzione morale che la porta a diventare la sgualdrina di un gruppo di soldati.
Hermanis ha l’abilità di catturare un umorismo di fondo nel libretto che le regie di solito non colgono. Anzi, la sua messinscena è fin troppo perbene, senza nessun momento particolarmente crudo. I battibecchi tra sorelle sul letto a castello, la posizione fetale che assume il povero Stolzius davanti alla madre, gli accoppiamenti invisibili nella paglia sono esempi di una freschezza inedita che il regista è riuscito a sviscerare nell’azione. Complici di questo lavoro anche le spassose immagini pornografiche ottocentesche proiettate per etichettare quasi ogni scena. Nel quarto atto ovviamente l’atmosfera cambia: la degenerazione è compiuta e le proiezioni riportano casi clinici di volti sfigurati da tumori. L’opera finisce con l’assunzione di Marie al cielo, con immagini un po’ troppo didascaliche di una crocifissione al femminile.
La direzione di Ingo Metzmacher è millimetrica oltre che capace di grande ricchezza espressiva, come nell’intermezzo del secondo atto. Il cast è magistrale. Musicalissima la protagonista Laura Aikin, sempre tecnicamente all’altezza. Immensa la contessa di Gabriela Beňačková, tanto maestosa che nel terzetto sembra uscita dal Rosenkavalier. Ottimo il timbro e la recitazione di Thomas E. Bauer, qui Stolzius. Convincente il Desportes di Daniel Brenna anche se non cura a dovere la pulizia di tutti gli acuti che toccano alla parte. Insomma, pare sia più problematico mettere insieme i quattro protagonisti del Trovatore che i venticinque solisti richiesti da Zimmermann: davvero Verdi è più difficile?