Stefano Napoli mette in scena spettacoli in cui la comunicazione è unicamente affidata alle espressioni, alle posizioni e ai movimenti degli attori
Foto © Dario Coletti
Chi conosce il regista Stefano Napoli sa già che i suoi spettacoli sono quasi privi di parola. Dall’inizio degli anni ’80 insieme alla sua compagnia Colori Proibiti di Roma, il regista mette in scena spettacoli in cui la comunicazione è unicamente affidata alle espressioni, alle posizioni e ai movimenti degli attori.
Dal 21 al 26 maggio è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, nella sala Cafè Noir, l’ultima opera ideata e diretta da Napoli: Beauty dark Queen, lo strano caso di Elena di Troia. Come è chiaro dal sottotitolo lo spettacolo si ispira a una figura femminile molto nota, Elena, scelta in quanto “simbolo della bellezza”.
Gli attori sul palco (o meglio, i performer) sono in tutto cinque. Stefano Metz è l’elemento più “antico” della compagnia , avendo seguito Napoli fin dagli inizi della carriera; a petto nudo, egli interpreta Eros, e rimane un po’ a margine delle scene principali. Come lui, anche Simona Palmiero, che interpreta Afrodite, non interagisce direttamente con gli altri personaggi ma osserva e fa come da cornice, reggendo, giunonica, la famosa mela d’oro. Essi interpretano infatti due divinità e come tali non entrano in competizione coi tre personaggi mortali: Elena(Francesca Borromeo), Paride (Luigi Patano) e Menelao (Giuseppe Pignatelli).
Lo spettacolo appare come un succedersi di quadri viventi, molto artistici e finemente curati in ogni sfumatura, intervallati tra loro da uno stacco di buio totale. Se alcune scene sono decisamente criptiche -e necessiterebbero di una chiosa – altre sono più comprensibili; ciò che conta d’altronde non è tanto la storia, quanto l’emozione suscitata.
Vi sono scene più statiche, dove il movimento degli attori è minimo, ma le posizioni studiate con precisione millimetrica, oltre che estetica, sono molto espressive; poi vi sono scene dove gli attori partono da un quadro iniziale e in seguito, con movimenti plastici e significativi, lo trasformano e lo fanno “vivere”.
Sicuramente l’assenza di parola permette di concentrarsi maggiormente sull’espressività del corpo e del volto. La direzione dello sguardo, il modo di camminare, di muoversi, di respirare di guardare: tutto diventa comunicazione in una vera e propria arte performativa.
Ciò che viene messo in scena è la lotta provocata dall’eros, parola greca, che non significa tanto amore quanto bramosia amorosa, desiderio fisico di possesso. Menelao prende con la violenza Elena, e lei diventa una vittima che cerca il suo carnefice.
Paride ha un atteggiamento sicuro di sé e ridanciano. Egli rapisce Elena ma viene poi sconfitto da Menelao. Quest’ultimo, sebbene più forte, appare corrucciato e infelice, soprattutto in una scena in cui con le dita passa in rassegna tutte le rughe del suo volto.
Elena sembra una donna triste, consumata, sballottata da uomini ai quali, quando possibile, volta la faccia. Solo nella scena finale appare ridente, quando, tornata regina e vestita con un grande abito fucsia ricoperto di pailletes , viene ricoperta di doni, che però, a poco a poco, la sommergono e la fanno soccombere.
Tutte molto brevi, le scene non sono prive di sonorità, anzi,la scelta delle musica riveste un’importanza fondamentale nello spettacolo, in quanto ad ogni scena è abbinata una canzone o un’aria, in una selezione originale e raffinata (troviamo ad esempio l’aria di Rezia dall’Oberon di von Weber).
Beauty dark queen è uno spettacolo sui generis, frutto di un percorso di sperimentazione sul linguaggio del corpo dove il teatro viene a contatto con l’arte figurativa. Data la natura evocativa dell’opera, si consiglia prima della visione un ripasso della vicenda di Elena di Troia.