Femminista e liberista: piaccia o no (e mentre la diseguaglianza aumenta) ecco McCloskey e le sue fiduciose idee su innovazione e mercato
Prima marxista, poi liberale. Prima storica, poi economista. Prima Donald (fino a cinquantatre anni), poi Deirdre (nel 1995 il cambio di sesso). L’economista americana Deirdre McCloskey nella vita è stata molte cose. Ma oggi le sue tesi le spiega dalle cattedre di economia, storia, inglese e comunicazione della University Of Illinois, USA, e da quella di Storia dell’Economia dell’università di Göteborg, in Svezia. McCloskey si definisce “femminista postmoderna, aristotelica, quantitativa, episcopale e liberista”. Sicuramente la più vistosa eccezione alle regole della scienza economica contemporanea. A ritirarsi, a 72 anni, non ci pensa neanche. Anzi si prepara a tornare al centro del dibattito internazionale rilanciando le tesi che da sempre le stanno più a cuore con un’uscita editoriale annunciata recentemente al prestigioso Advanced Sustainability Institute di Potsdam, a Berlino.
Si tratta di una storia del capitalismo (e della borghesia) in quattro volumi, ancora senza titolo, che Times già definisce tra «le pochissime cose da leggere per chi voglia capirci qualcosa sugli sviluppi dell’economia globale dei prossimi anni». Un’opera con cui McCloskey va a posizionarsi frontalmente rispetto a Il Capitale nel XXI Secolo, l’oeuvre del celebre collega francese Thomas Piketty, che da un anno, con le sue critiche apparentemente perfette al capitalismo, monopolizza l’attenzione della stampa internazionale. McCloskey l’anti Piketty? Troppo facile. Perché per lei lo sforzo di Piketty non è inutile. Solo che arriva a conclusioni sbagliate e, quel che è peggio, inutili.
Le sue tesi speculari e opposte a quelle di Piketty, McCloskey le riassume così.«Il problema di Piketty è che a lui non interessano le sorti dei poveri. Semplicemente ritiene sia giusto, e utile, punire i ricchi. Ma sbaglia di grosso. Il problema della disuguaglianza, oggi come ieri, non sono i ricchi e la loro ricchezza, ma i poveri e la loro povertà». Senza la ricchezza dei ricchi, e l’ingegno di chi quella ricchezza la produce, lo Stato non ha chance di creare condizioni di pari opportunità per tutti? «Il nonsenso di una punibilità’ intrinseca della ricchezza è stato negli ultimi anni fortemente diffuso dai teoremi à la Piketty sui mali del Capitalismo. Ma il capitalismo non è la causa dei problemi del mondo industrializzato, bensí la sua soluzione».
Il nocciolo della tesi di Piketty, ovvero una tassazione progressiva sui patrimoni, è però molto popolare in Occidente, e non solo tra le sinistre. «La politica si assume una responsabilità gravissima nel dare tout court la colpa delle disfunzioni socio-economiche contemporanee al capitalismo che anzi, anche nella nuova fisionomia assunta con la globalizzazione, deve essere lasciato libero di crescere il più possibile per far stare bene il mondo».
È tuttavia difficile negare che il tema socio politico più urgente sia l’allarmante crescita della forbice della disuguaglianza nei paesi industrializzati. «Le disuguaglianze non hanno origine nel sistema capitalistico o, come io preferisco chiamarlo, nel sistema dell’Età dell’Innovazione. Le preoccupazioni di Piketty arrivano da Malthus, Ricardo e Marx, i padri fondanti dell’economia classica. Le riflessioni di Piketty hanno molti spunti validi ma sbagliano obiettivo». Come impostare allora un’analisi socioeconomica in grado di definire soluzioni per il futuro? «La cosa più interessante della fase storica che stiamo ancora attraversando, più o meno iniziata duecento anni fa, non è l’accumulazione di ricchezza, ma la volontà, capacità e predisposizione all’innovazione». La colpa di Piketty è dunque quella di limitarsi a colpire la mera accumulazione? «Solo la capacità innovativa intrinseca all’Età dell’innovazione, (o capitalismo) ci salverà. Solo una società che valorizzi il cambiamento fa funzionare l’ascensore sociale. E solo le condizioni create dall’Età dell’Innovazione possono migliorare le inaccettabili condizioni dei poveri di questo mondo». Per Deirdre McCloskey non è la tassazione sui patrimoni la soluzione, ma regole di mercato limpide, ferree, etiche, che evitino accumulazioni inutili e conflitti d’interesse. «Il miglior mezzo contro la povertà è e resta il mercato». Ci volevano quattro tomi giganteschi per dimostrare la tesi originaria amata da tutti gli economisti liberali? «Sì. Perché se bastano dieci parole per formularla, servono quatro libri per dimostrarla».
Che piacciano o no, le tesi di Deirdre McCloskey palesano una verità storica inconfutabile: prima della rivoluzione industriale la povertà è un fatto ineluttabile, solo dopo diventa un problema sociale. C’è da scommetterci che McCloskey nella sua storia del capitalismo di prossima pubblicazione riporterà l’attenzione su quello che secondo lei è il nocciolo del problema dell’analisi economica contemporanea: il fraintendimento sul funzionamento del sistema capitalistico di cui Piketty sarebbe in questo momento il principale artefice. «La parola capitalismo nell’analisi di Piketty implica, erroneamente, il mero accumulo di capitali. Ma quest’accumulo è solo un aspetto prodotto dall’Età dell’innovazione. Piketty, e tutti gli economisti che lo seguono, spengono la luce sul tema dell’innovazione che, senza il sistema capitalistico e senza i capitali, sarebbe impensabile. Nell’Età dell’innovazione il reddito pro capite quotidiano negli Stati Uniti è passato da tre a 100 dollari in 200 anni».
È la “dignità borghese” la formula, efficacissima e polemica, scelta da McCloskey per individuare il fattore culturale responsabile dello straordinario sviluppo dell’Occidente negli ultimi trecento anni e messo al centro dei suoi lavori più importanti, oggi classici del pensiero economico contemporaneo, tra i quali Enterprise and Trade in Victorian Britain (1981), The Vices of Economists, The Virtues of the Bourgeoisie (1996) e How to be human.Though an economist (2000). Lì McCloskey disegna un capitalismo dai contorni etici, ma lontano dall’economia sociale di mercato e dal ruolo forte dello Stato, al quale oggi si tende a pensare quando si parla di etica e economia. Per lei è arrivato anche il momento di dire basta a quella che chiama l’arroganza degli economisti (maschi). «Il libro di Piketty è immerso fino al collo nei dati che supporterebbero le sue tesi. Ma gli economisti, oggi, troppo spesso si nascondono dietro le mura dei loro dati senza dimostrarli. Un saggio di economia deve essere fatto continuamente a pezzi. E poi, dove sono finite le Scienze Umane, la Teoria Economica, l’Economia Politica, la Storia dell’Economia e la Letteratura Economica? Nelle facoltà economiche scarseggiano. E questo è male».
È del tycoon scozzese americano dell’acciaio Andrew Carnegie (1835-1919), uno dei padri del capitalismo moderno, la massima: “Chi muore nella ricchezza, muore nella vergogna”. McCloskey direbbe così: se la ricchezza non produce nulla e anzi accumula solo sé stessa, è giusto tassarla. Ma a un Marc Zuckerberg che con Facebook ha cambiato il mondo, e continua a farlo, direbbe, avanti così, investi e innova, secondo regole di Etica e Diritto. «Non c’è economia senza l’innovazione. Non c’è sviluppo senza l’innovazione. E non c’è futuro, senza l’innovazione».
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