Perchè non ci è piaciuta la mostra di Amos Gitai a Palazzo Reale? Sbagliata la location, sbagliato l’allestimento, sbagliata la sequenza delle opere…
Che la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale sia il luogo privilegiato per mostre riguardanti la “follia” autodistruttiva umana è chiaro da tempo. A partire dalla celeberrima mostra di Picasso del 1953 e dopo una parentesi di sostanziale abbandono, la sala è stata spesso scenario di eventi di tal sorta. Eppure, se quell’inaugurazione postbellica aveva solidi motivi per svolgersi lì, alcune tra le più recenti esposizioni tradiscono facili affidamenti retorici, spesso a sostegno di evidenti caducità contenutistiche. Ultima di questa schiera è l’attuale mostra di Amos Gitai (Haifa, 1950): Strade | Ways.
La mostra, in programma già da due anni e sempre posticipata, si divide in tre sezioni: Lullaby to my father, Talking to Gabriele e Carpet. Si tratta di un percorso a ritroso nella memoria del regista israeliano: partendo dal ricordo di suo padre, Munio Gitai Weinraub, architetto del Bauhaus, e continuando con quello del fotografo e amico Gabriele Basilico. Al primo il regista ha dedicato il documentario Lullaby to my father, mentre col secondo ha collaborato a diversi lavori, tra i quali il film Free zone. Una serie di fotografie, progetti e scritti, contenuti in lunghe bacheche, documenta il rapporto artistico e affettivo intrattenuto dal regista con queste due figure.
La terza sezione, Carpet, fa la parte del leone, occupando l’intera Sala delle Cariatidi: il titolo è lo stesso del prossimo film di Gitai. Appesi a grandi pannelli in legno, che poco c’entrano con il resto dell’ambiente, si trovano fotografie dei luoghi che ospiteranno il film, stampate malamente, e tappeti orientali del XVI e XVII secolo, provenienti dalla collezione dell’amico Moshe Tabibnia. Il tappeto diventa qui il simbolo “dei luoghi, delle culture, delle storie e dei popoli che vivono e viaggiano tra il Mediterraneo e l’Oriente”. Ma l’unico episodio di un certo interesse è forse la proiezione di un estratto del film Esther sul soffitto della sala: con una ripetitività lisergica e colori allucinanti, a metà strada tra Blade Runner e un videoclip dei Chemical Brothers, la regina Esther e Mardocheo compiono lenti e onirici gesti. E non è la prima volta che ciò avviene su regali soffitti.
L’impressione che accompagna il visitatore dall’inizio alla fine del percorso è quella di una mostra posticcia e confusionaria, a cominciare dall’unico pannello per stanza che raccoglie tutte le didascalie dei lavori presenti, costringendo a un continuo avanti-indietro per individuare i riferimenti. Confusionario è anche l’intreccio di argomenti, progetti e personalità differenti, senza che si comprenda dove finisca uno e inizi l’altro o che legame ci sia tra loro. Una mostra, insomma, che sembra pensata più per chi l’ha fatta che per chi la riceve, con la conseguenza di risultare poco interessante.
Amos Gitai. Strade | Ways, Palazzo Reale, fino al 1 febbraio 2015.