Vanessa Winship è nata nel 1960. Ha la stessa età di mia madre. Non sono sicura che vorrei lo fosse. Ma sarei cresciuta nomade e forse anche col suo talento
Vanessa Winship è nata nel 1960. Ha la stessa età dei miei genitori, potrebbe essere mia madre. Per quanto ami le sue fotografie, però, non sono sicura che vorrei lo fosse. Certo, da lei o da papà, George Georgiou, anche lui fotografo, avrei probabilmente preso un incredibile talento nella composizione dell’immagine. Se fossi stata fortunata avrei ereditato anche la sua sensibilità, che per chi racconta attraverso la fotografia è fondamentale. Le capacità tecniche sono altrettanto fondamentali, ma da sole non bastano mai.
Se fosse mia madre sarei cresciuta nomade, attraverso i suoi viaggi: un’esperienza che arricchisce inconsapevolmente quando si è ancora piccoli e regala grandi capacità di adattamento, ma è allo stesso tempo rischiosa. Chi non nasce dotato di un paio di piedi ben saldi a terra corre il pericolo di perdersi per sempre, di non scoprire mai chi è veramente, da dove viene, a chi e a cosa appartiene.
La Winship è nata nel Regno Unito, dove tutt’ora vive, ma per quindici anni dal 1999 è vissuta lontana da casa, errando per raccontare i Balcani, la Grecia, la Turchia, il Mar Nero, poi la Spagna e gli Stati Uniti. La sua anima nomade e malinconica è dotata di una sensibilità che l’ha resa un’eccezionale fotografa, tanto da farle vincere nel 2011, prima donna al mondo, il premio Henri Cartier-Bresson, con un’indagine sulla deriva del sogno americano (She dances on Jackson): una rappresentazione più in generale della sua visione della società occidentale. Prima, però, Vanessa è passata da est, occupandosi delle macerie letterali ed emotive dei Balcani e del conseguente bisogno di ricostruire un’identità.
Il suo viaggio, in mostra alla Fondazione Stelline di Milano fino al 15 febbraio, è cominciato alla ricerca dei segni della guerra in Albania e Kosovo (Imagined States and Desires: A Balkan Journey), registrati in bianco e nero e con pazienza. Con il bianco e nero, che scelse in principio perché pensava avrebbe reso il suo lavoro più credibile e che poi mantenne, per l’astrazione dalla realtà che le permette di raggiungere. Con pazienza, perché la comprensione del mondo per la Winship richiede molto tempo: l’unico modo per portare a casa una vera comprensione è scavare in profondità, sempre di più. È lì in fondo che si scoprono le fragilità, talmente ben rappresentate dalla fotografa, che ci si chiede se non stia scavando dentro se stessa.
La profondità è figlia dell’ascolto attento: l’eco del Mar Nero (Black Sea: Between Chronicle and Fiction) e dei Paesi che lo circondano (Sweet Nothings: Schoolgirls of Eastern Anatolia e Georgia. SeedsCarried by the Wind), di cui la donna ha sfidato i confini e le frontiere che la ossessionano, risuona allo stesso modo nei ritratti e nei paesaggi. Luoghi e persone restano per sempre immobili e sospesi nel suo lavoro, anche se sono fisicamente distanti: si può ritrovare la fissità di alcuni scorci Balcanici anche ad Almería, in Spagna, l’ultima tappa dei suoi viaggi (Almería. Where Gold Was Found).
Ognuna delle oltre 100 fotografie della mostra – organizzata a Milano dalla Fundación Mapfre di Madrid – è capace di catturare lo spettatore, rendendogli difficile e quasi doloroso passare alla successiva. Le immagini si susseguono in un allestimento semplice e pulito, che rende loro talmente tanta giustizia da far venir voglia di tornare a rivederle almeno un’altra volta.
Vanessa Winship, fino al 15 febbraio alla Fondazione Stelline