“Il regno” di Rodrigo Sorogoyen, protagonista l’eccellente Antonio de la Torre, ha vinto lo scorso anno sette Goya (gli Oscar spagnoli) raccontando l’intreccio tra affari e partiti nella Spagna d’inizio secolo. E un’indagine che porterà allo scoperto una fabbrica di piani regolatori e posti di governo, denaro facile e potere colluso. Un thriller adrenalinico nello stile, i cui temi etico-politici guardano lontano
ll regno ha vinto lo scorso anno sette Goya (gli Oscar spagnoli), tra cui quelli al 51 enne protagonista Antonio de la Torre (carismatico e solidissimo, visto di recente in due ottimi film, La isla minima e Una notte di 12 anni in cui impersonava il futuro presidente dell’Uruguay, José Mujica), al “non protagonista” Louis Zahera (ma si fa per dire, le prime parti sono molte nel film), al regista Rodrigo Sorogoyen (autore di Che dio ci perdoni, a novembre nelle sale col suo nuovo film Madre) alla sceneggiatura scritta dall’autore insieme a Isabel Pena, sua collaboratrice stabile, e altri ancora. In più ha incassato 23 milioni di euro nelle sale del suo paese, cifra tutt’altro che trascurabile per un film non Made in Usa.
Lo si può certamente definire un thriller politico: tema principale, la corruzione nei partiti. Ma mentre allo spettatore straniero risulta neutra la coloritura politico-culturale della formazione sotto inchiesta nel film (e questo la dice anche lunga sulla nostra assuefazione a un anti-ideologismo che ha portato alla perdita d’identità, anche morale, delle organizzazioni), forse in patria qualche riferimento a persone e fatti reali si può intravedere. Al centro della vicenda, collocabile una decina di anni fa circa, c’è il promettente e fortunato leader “locale” Manuel Lopez-Vidal, che fa soldi e gestisce con rigorosi criteri clientelari pani regolatori e industria del cemento, commercio di terreni e cariche negli enti pubblici.
Nella sua vicenda recente ha però almeno due grosse e potenzialmente assai pericolose “imprese” da nascondere, e per sua sfortuna una grande inchiesta su di lui e il suo partito le fa emergere entrambe quasi in contemporanea, grazie a gran numero di “soffiate” dei colleghi e amici che l’hanno sempre sostenuto, lautamente ricambiati. Come la grande città nel vecchio cinema nero hollywoodiano, la politica spagnola è la patria del tradimento e del cambio di alleanze, anche immediato se la polizia incombe, e non ci sono solidarietà né amicizie decennali che ne escano indenni, almeno nel film.
Lo stile di Sorogoyan è decisamente adrenalinico, espressionista: fatti che si susseguono senza fine in un tragitto che supera le due ore; montaggio frenetico, con doppie e triple storie raccontate in parallelo. Eppure, sotto la scorza di un modernismo che lo rende comunque accattivante, soprattutto a un pubblico più giovane, non manca una certa densità di temi e riflessioni che lo apparenta un po’ al nostro cinema d’inchiesta e di denuncia storico, quello dei Rosi, Petri, Germi, che già negli anni Sessanta univa con grande qualità (rivedetevi Le mani sulla città o Salvatore Giuliano, per verificare), anche grazie alla lezione della scuola americana del noir letterario-filmico impegnato, azione e polemica, questioni collettive e delitti individuali.
Ma Sorogoyan è più ambizioso di un pur ottimo regista di cinema nero. Nella parte finale del suo Regno (che sta per il partito, monarchicamente gestito dalla segretaria madrilena, una sorta di Merkel iberica, e dalla sua tavola rotonda di maggiorenti) introduce infatti il tema, da noi irrisolto ormai da 25 anni, del conflitto tra società politica e civile. In questo caso se ne fa portavoce, nella parte finale del racconto, una giornalista tv a cui Lopez si rivolge mettendole in mano un dossier in cui tutti i suoi compagni di partito risultano inequivocabilmente dei malfattori. Muoia Sansone e tutti i filistei. Svolta etica nella vita di un farabutto o espediente per salvarsi sciogliendo le proprie responsabilità nel mare magno della corruzione generalizzata?
Dapprima l’anchorman sembra stare al gioco, ma presto decide di fare troppe domande sul passato e la figura di Lopez, sulla sua incapacità di interrogarsi su una vita da fuorilegge, quantunque nascosto, di percepire l’abisso etico in cui si stava muovendo. Ciò suscita la rivolta “live” dell’uomo, che l’accusa di voler nascondere, con l’appoggio della proprietà del canale televisivo, coinvolta in molti (mal)affari, le sue davvero esplosive rivelazioni. Il regno chiude in diretta tv con questo il botta e risposta sempre più acceso, da entrambe le parti senza veri chiarimenti: un finale “aperto” che sa un po’ anche questo di cinema d’antan.
In sostanza Sorogoyen sembra rimandare al pubblico i quesiti che pure lancia, e uno su tutti, il più globale: è più colpevole il politico che si fa pagare per favorire un industriale, l’industriale che finanzia il politico per farsi i fatti suoi (e molti soldi) o i media che non ne dicono abbastanza, paladini inadeguati dei cittadini spettatori? Da Mani Pulite in avanti, il dibattito su questi temi troneggia da noi, dato che il livello etico della nostra classe dirigente pubblica non sembra tendere a miglioramenti; ma anche guardando la storia recente spagnola, quella del dopo-Franco, da decenni scoppiano gli scandali tipici di una società dominata da uno sviluppo un po’ selvaggio, gestito in un intreccio pubblico-privato spesso discutibile. In più nel film cominciano ad affacciarsi la crisi mondiale (2007-2008) e la nuova economia digitale che detta già nuove regole. Come dire che quelli dei faccendieri stile ‘900 erano in quegli anni un po’ gli ultimi “treni” disponibili verso il successo e i denari facili. La rete cambierà davvero quasi tutto.
Il regno, di Rodrigo Sorogoyen, con Antonio de la Torre, Mónica López, Josep Maria Pou, Nacho Fresneda, Ana Wagener, Bárbara Lennie, Luis Zahera, Francisco Reyes (I), María de Nati, David Lorente