Dopo il passaggio a Siracusa, l’Elena di Livermore – e di Euripide – mescola tragedia a vibranti elementi di commedia
FOTO © MARIA PIA BALLARINO
Di Elena di Troia crediamo di sapere tutto: la storia della moglie di Menelao fuggita con Paride e causa dei dieci anni della guerra più famosa della letteratura è stata raccontata in ogni declinazione. Ma siamo sicuri che sia andata davvero così? Non secondo Euripide, e prima di lui Stesicoro.
Della fedifraga e accondiscendente per antonomasia esiste un doppio: una donna fedele e rabbiosa, che a Troia non ha mai messo piede e che attende il ritorno dell’amato marito sulle sponde del Nilo, mentre la Grecia intera odia la donna che riconosce dentro a un fantasma cui Era, vendicativa, ha dato le sue sembianze.
È questa la versione della storia che ha scelto di raccontare Davide Livermore al Teatro Greco di Siracusa, dove le sponde del fiume d’Egitto hanno preso la forma di venticinquemila metri cubi d’acqua sui quali si riverbera un gioco di specchi che sta a dimostrare da solo la vicinanza tra l’emblema della classicità e il presente, senza bisogno d’esser forzato a una tesi. Sul palco del Teatro Romano di Verona di acqua ce ne sta molta di meno, ma non la forzata riduzione degli spazi non penalizza la forza di una Elena dirompente, quella di Laura Marinoni, dei suoi sentimenti che deflagrano: di quella classica l’Elena di Livermore mantiene la forza delle passioni, che però muove, anziché esserne mossa. Per quanto sia costretta ormai da lustri ad attendere che le cose avvengano, non è una donna passiva.
Non lo è davanti a Teoclimeno, figlio di quel Proteo che le aveva dato asilo, il quale ormai morto il padre vorrebbe farne sua moglie. Non lo è davanti a Teucro, che irrompe contro di lei col dito puntato di tutta la Grecia, ponendola allo specchio di un doppio e di se stessa: a vestirne i panni è infatti Viola Marietti, fasciata in un identico abito nero denso di paillettes, cui viene affidata la sola parte forse realmente drammatica dell’intera opera.
Accreditata come tragedia, quest’opera segna infatti in realtà l’irrompere della commedia nel teatro classico, nel senso del termine come oggi si utilizza. Se tragedia era, nella Grecia dei tragediografi, ciò che doveva dimostrare agli uomini l’inevitabilità del proprio essere succubi al disegno divino, ci si muove ancora dentro il recinto (del resto, sacro non è altro che separato). Tuttavia, questa volta il capriccio divino non è una condanna, l’agnizione e il ricongiungimento con Menelao possono avvenire ed è possibile alla coppia ricomposta prospettarsi un futuro felice.
E allora forse tragica è piuttosto la guerra inutile combattuta in nome di una figura fatta di nubi, che ha tinto di rosso un mare che sembra strabordare dall’enorme schermo a led che sovrasta la scena, rimandando immagini che immergono l’intero spettacolo nell’atmosfera suggestiva e angosciosa di certi film apocalittici, su cui incombe un Mediterraneo presagio di morte che porta – nel silenzio – echi quanto più attuali non si potrebbero. È dalle sue sponde che sono fuggiti e sono morti i greci – i nostri progenitori rivendicati con forza e orgoglio da secoli di cultura di matrice ellenica.
Da una guerra inutile e catastrofica come tutte le guerre. Inutile come l’astio di Teucro che invoca felicità sulla donna che vede e morte e sofferenza alla nemica, alla rinnegata, che ha l’impressione di riconoscere nel suo (e nel proprio) volto. Quella che ha scelto di stare dall’altra parte. Inutile è l’odio che un Menelao esule e fuggiasco si vede opporre quando gli abiti da re si sono fatti quelli laceri di un mendicante a cui dal palazzo cui è giunto mandano a dire che non c’è posto per lo straniero, e i porti sono chiusi. A uno che ci somiglia, e il cui intero sistema valoriale – Euripide lo sottolinea, anche in quest’opera, diverse volte – si regge su una massima “sono un fuggiasco, e i fuggiaschi sono sacri”.
Eppure, anche per il re eroe che si è trovato dalla parte sbagliata del mare, non resta che affidarsi all’indovina Teonoe (Simonetta Cartia, raffigurata quasi come una diva d’opera, tutta cotonature e svolazzi), sorella di Teoclimeno, non resta che scegliere se mentire al fratello per salvare un esule o consegnare lo straccione in cui le è stato raccontato un nemico alla morte. La premonizione che il Menelao di Sax Nicosia le consegna risuona molto oltre i confini della scena: “se ritieni giusto salvare in me lo straniero, salvami. Se mi condannerai perderai te stessa, i nostri corpi si accasceranno nel sangue lasciando a te l’orrore e l’onta a tuo padre”.
È solo la decisione di chi è chiamato a questa scelta a poter garantire una speranza a chi fugge, e a radicare una possibile felicità, senza che il potere si prenda l’arbitrio di separare chi ha scelto di restare insieme, perché “non c’è felicità al di fuori della giustizia”.
Così il potere del denaro, del prestigio e della regalità che vuole disporre della vita altrui ha i tratti grotteschi del Teoclimeno di Giancarlo Judica Cordiglia, sovrano in abiti settecenteschi che racconta plasticamente il potere come parodia di se stesso, sciocco e ridicolo nel suo ripetere bambinescamente i propri desideri e del tutto incapace di rendersi conto che nel doppio di Elena c’è anche quello dell’attrice, pronta a illuderlo di compiacerlo pur di aver salva la vita, dopo avergli chiesto una nave per un rito funebre in onore del marito che si fa – personalmente – credere morto? Qual è la mano che arma la spada a cui sono esposti i marinai egizi? Quella di Menelao che ha insanguinato due sponde dello stesso mare o l’ottusa fame di potere del re egizio, o forse entrambi?
Un cast di valore (che conta anche Mariagrazia Solano, Maria Chiara Centorami, Linda Gennari, Federica Quartana, coro Bruno Di Chiara, Marcello Gravina, Django Guerzoni, Giancarlo Latina, Silvio Laviano, Turi Moricca, Vladimir Randazzo) e la regia di Livermore costruiscono una messa in scena di notevole impatto visivo e accuratamente coreografata, riuscendo a renderla contemporanea senza bisogno di forzare la mano. Così i cori suonano di note elettroniche che potrebbero essere Battiato senza che sembri una forzatura, così come suona anche l’acqua a cui Andrea Chenna regala suoni astratti e battenti, ipnotici come le luci di Antonio Castro.
I costumi ampi di Gianluca Falaschi forniscono volume all’insieme appoggiandosi sui corpi bagnati, completando l’architettura di un’opera di grande impatto, pensata per suggestionare e affascinare, senza che l’arditezza delle scelte stilistiche a tratti “gridate” soverchi la voce di Euripide, lunga millenni.