Le immagini storiche delle lotte per un lavoro migliore, una vita più pulita, e la città-fabbrica di oggi, che conta ancora 15mila dipendenti (da 60 paesi diversi). “Il pianeta in mare”, documentario di Andrea Segre scritto con Gianfranco Bettin, alterna preziosi filmati dell’Istituto Luce e bellissime immagini della modernità, interrogandosi sul futuro incerto di un luogo simbolo del “boom” italiano
Andrea Segre, nato 43 anni fa a Dolo, provincia di Venezia è un regista acquatico, lagunare, adriatico. Ha ambientato otto anni fa a Chioggia, la malsopportata vicina dei serenissimi abitanti, teatro delle celebri baruffe goldoniane, in un’affascinante atmosfera invernale e brumosa il più bello e premiato dei suoi film di fiction, Io sono Li, una storia di emigrazione, tolleranza e relazioni umane. Ora torna sugli schermi con Il pianeta in mare, come molti altri suoi lavori passato con apprezzamento alla Mostra di Venezia, per raccontare in forma di documentario classico, ma anche molto personalizzato e caldo, un altro “sobborgo” veneziano, anzi mestrino: quello più industriale e dalla storia più recente, Marghera.
È stata forse la città-fabbrica che ha segnato la storia recente di tutto il Nord-Est, ma l’età dell’oro della una parabola socio-economica, iniziata cento anni fa, negli ultimi decenni è quasi tramontata, in verità soprattutto nella percezione di chi non vive lì. Marghera ha conosciuto la sua massima espansione economica e demografica tra i 60 e 70: qui si contavano più di 200 aziende grandi e medie, che impiegavano oltre 35mila persone, e ancora a cavallo del 2000 c’erano Enichem, Edison Termoelettrica, Agip Petroli, Esso Italiana, Api, Montefibre, San Marco Petroli, Agip Gas, Solvey Fluor e altre. Oggi siamo scesi a 13mila500 addetti, comunque non pochissimi dopo la pesante de-industrializzazione dell’intero nostro paese, molti dei quali impiegati alla Fincantieri nella costruzione e riparazione di grandi imbarcazioni da turismo e trasporto. Quelle che proprio la Venezia più responsabile non vorrebbe ora più far circolare liberamente davanti al bacino di San Marco. Il regista ha detto che la cosa che l’ha convinto definitivamente a fare questo film, è stata “l’idea che negli ultimi due anni, a chiunque io abbia detto che stavo lavorando a un film su Marghera, quasi sempre mi rispondeva: “Ah, perché esiste ancora Marghera?” Le tante ferite e crisi che hanno attraversato questa zona industriale, come altre in Italia, hanno costruito una grande rimozione nazionale. Crediamo che in quegli spazi non ci sia più nulla, nessuno. Invece non è così. E un regista di documentari ha il compito di portare le persone lì dove non possono o non vogliono entrare”
L’approccio di Segre, frutto anche della collaborazione, in sceneggiatura, di Gianfranco Bettin, politico, militante e studioso ambientalista, è affettuoso, si potrebbe dire che mostra di tenere più alle persone più che ai luoghi, di cui è spesso però bellissimo l’impatto fotografico nonostante sia evidente la nocività per i dipendenti e gli abitanti di quelle fabbriche, testimoniata tra l’altro dai moltissimi e clamorosi processi, spesso con assoluzioni altrettanto clamorose, susseguitisi negli anni, in seguito alla morte per tumore di 157 operai solo al Petrolchimico. “Avevo voglia” parla ancora l’autore, “di fare un viaggio estetico nel rapporto industria e natura, tra Marghera e laguna, tra pianeta e mare”.
Ma siamo lontani da operazioni “nostalgia”: fondamentalmente il film parla di ciò che si fa oggi su quella costa, tra quelle gru, in quelle osterie, dove va in scena una forse difficile eppure costante integrazione di popoli del lavoro che rappresentano sessanta nazionalità diverse, davvero in partenza molto distanti. Per età, condizioni sociali e culturali, convinzioni, religioni, pregiudizi. Perché le occupazioni, i lavori più faticosi e pericolosi, un tempo quasi certamente appannaggio dei ragazzi che venivano dalla Sicilia e da tutto il Sud italiano, se li contendono oggi gli operai nordafricani ed est-europei.
Che mondo si vede sudando nel ventre d’acciaio di una meganave da crociera, o che universo telematico anticipa il Science Technology Park di Vega; ma anche cosa ci ricordano i maturi pensionati mentre tornano ad aggirarsi tra i bastioni abbandonati del Petrolchimico, gli alti forni e le ciminiere delle raffinerie, spiegando come lavoravano e quanta scienza e sapienza, oltre che fatica, in mezzo a pericoli, erano allora in grado di mettere in campo. Le immagini delle vite, delle battaglie degli operai nell’epoca “d’oro” tornano nelle preziose immagini degli archivi dell’Istituto Luce Cinecittà, in documentari e cinegiornali, e si alternano alle voci attuali, raccolte da Segre, di manager e camionisti, in perenne tragitto Est-Ovest nell’Europa del Duemila.
Centinaia di container e migliaia di turisti vengono scaricati senza sosta ai bordi della Laguna, che ne ha viste davvero tante, e dove purtroppo ormai scarseggiano i vermi da pesca, i “peoci” e altre prelibatezza della cucina veneziana, mentre la cuoca/padrona dell’ultima trattoria rimasta, che non sfugge all’abbraccio, forse inevitabile, certo nefasto, delle slot machines, dichiara la sua resa, la sua voglia di pensione, per troppi pasti elargiti.
È un film su ciò che è stata Marghera, su una storia gloriosa di lotte per il lavoro e una vita pulita, ma anche, forse soprattutto, sulla modernità, sul rapporto tra industria e ambiente. Segre ci tiene a metterlo in chiaro. Cosa faremo, domani, di questa città-fabbrica? “Si entra dentro il presente, respirando il passato molto ingombrante, pieno di ricordi e ferite, ma ci si chiede anche qual è il futuro di questo pianeta”. E parliamo di un futuro assi prossimo. Per capirsi, a sette mesi dalle riprese, la vita di metà dei protagonisti del documentario è già cambiata. Come ovunque, il lavoro precario ha imposto le sue regole anche qui.
Il pianeta in mare, documentario diretto da Andrea Segre e scritto con Gianfranco Bettin