Certo, in partenza c’è il nemico di Batman, nato a fumetti nel 1940 e tante volte rifatto al cinema. E la storia, nel film di Todd Phillips che ha vinto con pieno merito il Leone d’Oro a Venezia 2019, è ambientata a Gotham City. Però in realtà è la New York di Taxi Driver, e nel cast c’è pure Bob De Niro: perché in questo racconto sconvolgente, ossessivo, imperdibile, che vi tiene incatenati alla poltrona, si parla di cose vere e di gente viva. E di un pagliaccio che si mette a capo di una rivolta disperata
Attenzione: il magnifico, ossessivo, allarmante, torvo e conturbante film Leone d’oro Joker non ha niente a che vedere con il genere fantasy, con i Marvel o i DC comics: qui si parla di cose vere e di gente viva. Certo, il personaggio è quello che apparve nei fumetti nel 1940, lo storico nemico di Batman (il secondo villain più cattivo di tutti io tempi), che nel film-antefatto di Todd Phillips si vede bambino, e la città si chiama, per rispetto all’immaginifico grafico, Gotham City. Una metropoli fumosa e sporca, violenta e invasa dai topi, fuori da connotazioni temporali (al cinema danno lo Zorro gay ma anche Tempi moderni di Chaplin che è del ’36) anche se è chiaramente New York. Ma è la New York degli anni 80, quella presentata da Martin Scorsese in Taxi driver e soprattutto nel più che citato Re per una notte in cui Robert De Niro, ora presente come entertainer alla Letterman, diceva: “Guardo tutta la mia vita e vedo cose terribili e allora la trasformo in qualcosa di divertente”.
È questo il compito del clown Arthur Fleck, umiliato e offeso nel pubblico e nel privato, con una vena tragica come tutti i grandi buffoni del cinema (e del teatro scespiriano), da Chaplin a Fellini a Bergman, passando per i Freaks di Tod Browning. Il miracolo del regista di Una notte da leoni (un vero miracolo) è aver sposato due idee di cinema tra loro nemiche: da una parte appunto il Joker che deriva dalla saga di Batman e che anche qui mostra le sue perfidie diventando capo di una rivolta di clown, come i gilet gialli, dall’altra il discorso sul degrado della civiltà e della morale che il povero clown disoccupato sperimenta sulla sua pelle. Ma tutti alla fine prendono le sue sembianze, la sua maschera e vogliono abolire la ricchezza, così come altri vogliono abolire la povertà.
Il film è di una potenza espressiva eccezionale, qualcosa che ti prende e non ti molla fino alla fine, andando giù nel profondo e giocando di continuo col grottesco, soprattutto affidato a una colonna sonora che oltre al macabro suono dei nuovi inferi inserisce Smile e That’s life cantata da Frank Sinatra. Questa è la vita, quella del clown che non fa ridere e non sappiamo cosa aggiungere alle lodi che ha già avuto Joaquin Phoenix, eccezionale protagonista fisico e non solo di questa fantasmagoria di suoni, colori, emozioni che finisce in casa di cura e promette il peggio per il futuro. La ricchezza dei particolari, la magnificenza della scenografia (reale, iper reale, astratta…), la perfezione dei comprimari fanno il resto. Ma su tutto comanda la risata compulsiva di Arthur-Joaquin, da cui guarisce in parte solo dopo la morte della madre. Forse quella di Murnau a Berlino nel ’26 non era L’ultima risata: oggi il ghigno è davvero satanico.
Maurizio Porro
Ma che deve fare di più Joaquin Phoenix per arrivare all’oscar?
Sarà una risata che vi seppellirà. Come un rumore di fondo continuo e disturbante, dal primo all’ultimo fotogramma. Una risata tristissima, angosciante, ipnotica e mai davvero liberatoria, nemmeno per un istante. Questo, e tanto altro, è il Joker di Todd Phillips e, soprattutto, di Joaquin Phoenix: un film scomodo, capace di incollarti alla poltrona come qualcosa che non si vorrebbe vedere, ma da cui non si riesce a distogliere lo sguardo. Non c’è un personaggio positivo (nemmeno quelli più prevedibili), non un momento per tirare il fiato o sperare in un lieto fine da classico cinecomic. Già, perché l’avvertenza è doverosa: Joker, sacrosanto premio al miglior film all’ultima Mostra di Venezia, non è affatto un cinecomic. È piuttosto un Quinto Potere, o un Taxi Driver più oscuro e inquietante, senza alcuna via d’uscita se non quella del caos o dell’autodistruzione. E come omaggio a una delle più evidenti fonti d’ispirazione, il primo ospite del cast è un De Niro finalmente restituito al cinema di serie A, lui che nei panni del deviato giustiziere metropolitano aveva costruito una buona fetta della sua fortuna.
Ma la vera e unica stella della pellicola, ça va sans dire, è Joaquin Phoenix, sempre ottimo, eppure mai visto prima a questi livelli. La sua trasformazione, sia fisica che psicologica, scavalca perfino l’interpretazione dell’ultimo suo illustre predecessore, quell’Heath Ledger a cui i panni del clown psicotico di Gotham City erano valsi un eccezionale e meritatissimo Oscar postumo. Statuetta che dopo tre nomination per Il gladiatore, Walk the Line e Her, Phoenix meriterebbe ora senza nemmeno attendere i mesi che ci separano dalla nuova cerimonia degli Academy Awards, tanto è difficile immaginare concorrenti alla pari. Sarebbe un record, quello del massimo riconoscimento a due diversi attori per un unico ruolo, a conferma del fascino senza tempo di un personaggio capace di incarnare con estrema complessità gli istinti più bassi e repressi dell’animo umano. Nemesi per eccellenza di un Uomo Pipistrello accennato soltanto, e con estrema delicatezza, nel film di Phillips, il Joker di Phoenix va oltre la seduzione dell’anarchia fine a se stessa, sorprendendo il pubblico e costruendo la propria follia un passo (di danza) alla volta.
A questo proposito, tra le sorprese forse la più grande è proprio l’abilità di Phillips, regista e co-sceneggiatore insieme a Scott Silver (una candidatura a testa all’Oscar per Borat e The Fighter), una carriera fin qui costruita a base di comicità più o meno demenziale – Parto col folle, Starsky & Hutch e la trilogia di Una notte da leoni – nel ricreare alla perfezione le atmosfere di una Gotham City sull’orlo del collasso economico, sociale e umano. E nell’architettare una trama tutt’altro che banale, ricca di spunti e con un paio di sequenze magistrali e di plot twist da salto sulla sedia, lontana anni luce dal fallimentare universo cinematografico targato DC Comics, e per certi versi altrettanto distante dalla pur ottima saga del Cavaliere Oscuro firmata da Christopher Nolan.
Non temano quindi gli spettatori poco familiari con il mondo del Batman a fumetti: Joker è un capolavoro che brilla di una conturbante luce propria, una stand-up comedy distorta e malinconica rigorosamente VM 18 (caso più unico che raro negli States per un film ispirato all’universo dei comics) destinata a lasciare il
segno ben al di là della cerchia degli appassionati del personaggio. Un carattere accattivante da sempre, ma dipinto qui finalmente in tutta la sua vulnerabilità: creatura e martire, prima che mortale oppositore, di un mondo in cui l’unica forma di empatia è la ricerca rabbiosa d’un comune nemico come valvola di sfogo. Provare a “portare risate e gioia” nel mondo, a qualunque costo, non è altro che il sogno disperato di un folle, pronto a tutto per l’applauso del pubblico.
Stefano Benedetti
Joker di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy, Brett Cullen, Marc Maron, Bill Camp, Glenn Fleshler, Shea Whigham, Douglas Hodge, Josh Pais, Bryan Callen