12 dicembre 1969, la madre di tutte le bombe. ‘La bomba’ è l’ultimo libro di Enrico Deaglio che ripercorre una storia italiana che assomiglia al Sudamerica, tra gruppi neofascisti, collusioni di servizi segreti e depistaggi di stato. La storia che ha cambiato la Storia
«La fronte della persona con cui stavo conversando improvvisamente si illuminò, come una lampadina, o come un raggio che veniva dal cielo. Io rimasi a bocca aperta, e il mio interlocutore capì subito quello che era successo: “Sono frammenti di vetro sottopelle. Quando il sole li colpisce con un certo angolo, si illuminano, ma dura poco”. Mi disse che era un “sopravvissuto” della strage di Piazza Fontana del 1969, allora ventinovenne impiegato di banca. Rimase ferito a una gamba, pensò di perdere il lavoro. Andò ai funerali con la stampella; si ricordava il cielo nero, i passi della gente e uno sgomento, “come se ci stessimo tutti avviando a una fucilazione”. Aveva ottenuto un trasferimento dalla banca, perché non ce la faceva più ad attraversare quella piazza; ora – era il 1999, l’ultimo anno del Novecento – stava per andare in pensione. I frammenti di vetro non gli davano più fastidio. Anzi, quando si illuminavano, mi disse, gli ricordavano la sua fortuna e il suo debito con la vita».
Comincia così, come un racconto del realismo magico sudamericano, come una caravella incagliata nella selva o un treno stipato di banane e cadaveri, La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana di Enrico Deaglio (Feltrinelli, pagg. 302, 18 euro). È una storia di Milano Italia, una storia delle storie d’Italia che si credeva cuore dell’Occidente ed era un pezzo di Sudamerica, paese a sovranità limitata percorso dagli aliti roventi e dai miasmi fetidi della guerra fredda, dove i nazisti mettevano le bombe coccolati e protetti dai servizi segreti, dove le spie del Viminale e le polizie fabbricavano false piste e cospirazioni anarchiche, dove i testimoni scomodi venivano presi per disturbati e gli innocenti volavano dai quarti piani della questura, dove magistrati non si sa più se ciechi o compiacenti convalidavano menzogne e arbitrii.
La bomba, la madre di tutte le bombe. Esplose a Milano alle 16.37 del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che oggi non c’è più, resiste superstite soltanto un’insegna senza banca. Sette chili di tritolo sotto il tavolone centrale della sala delle contrattazioni, 17 morti e 88 feriti, contadini e allevatori che erano arrivati dalla provincia per concludere contrattazioni e versare gli incassi della settimana. Quel giorno le bombe furono cinque: una che non esplose a pochi passi da Piazza Fontana alla Banca Commerciale Italiana di Piazza della Scala – e con solerzia degna di miglior causa poche ore dopo, su impulso della Questura e della Procura della Repubblica, venne fatta brillare prima che gli esperti l’avessero esaminata, eliminando una prova che poteva dar fastidio e smentire la pista anarchica – e tre a Roma che fecero 16 feriti, alla Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio, in Piazza Venezia e all’Altare della Patria.
E benché investigatori, inquirenti e politici sapessero con largo anticipo quel che era avvenuto, che stava avvenendo e che stava per avvenire, nulla fu fatto per evitarlo. Ricorda Deaglio che «è ormai provato che il gruppo (i nazisti di Ordine Nuovo, ndr) venne “accompagnato” a Milano per depositare le bombe del 25 aprile» che furono la prova generale di Piazza Fontana: la colpa fu fatta ricadere su un gruppo di anarchici ventenni che rimasero in carcere per due anni, prima di essere scagionati. Ricorda Deaglio che, ancora su Ordine Nuovo «la polizia e il Sid sapevano delle bombe messe da loro all’Università di Padova e alla scuola di Gorizia». Ricorda Deaglio, e fa tuttora impressione, che «ultima prova ne sia la confessione, raccolta dal giudice Guido Salvini, in articulo mortis, di Paolo Emilio Taviani, che fu più volte ministro dell’Interno. Taviani raccontò che proprio il 12 dicembre 1969 un alto funzionario dei servizi, tale avvocato Matteo Fusco Di Ravello, di “fede rautiana”, prima avvertì la figlia di non farsi trovare a Milano quel giorno, poi addirittura cercò di raggiungere la città in aereo da Roma per sventare l’attentato. Ma, all’aeroporto di Ciampino, venne raggiunto dalla notizia di “una caldaia scoppiata in una banca di Milano”».
Obiettivo della strage, secondo i dettami della “guerra rivoluzionaria” non convenzionale contro la piovra gigante del comunismo che, nella vulgata allora corrente, si preparava a ingoiare l’Occidente e il mondo, era creare terrore per favorire un ritorno d’ordine: destabilizzare per stabilizzare. Su quale ordine andasse instaurato – una dittatura militare da installare con un golpe, un anno dopo Piazza Fontana ci proverà l’ex comandante della X Mas Junio Valerio Borghese, che entrò con i suoi uomini al Viminale prima di essere bloccato da una telefonata misteriosa – oppure un governo autoritario, o ancora un più banale rafforzamento del governo in carica, su questo la variegata schiera degli anticomunisti virulenti e pronti a menare le mani era divisa.
In quei giorni, gli invisibili congiurati speravano in provvidenziali disordini di piazza, magari ai funerali delle vittime della strage, per poter dichiarare lo stato d’emergenza: si è detto e scritto che fautore della soluzione “d’ordine” fosse il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat – che non si presentò al funerale, venne invece il presidente della Camera Sandro Pertini, che si rifiutò di stringere la mano al questore Marcello Guida, ex direttore fascista del carcere politico di Ventotene e che, scrive Deaglio, fu l’unico politico a capire che cosa stesse accadendo. Ma i disordini non ci furono, la grandezza di Milano – la grandezza di quell’immensa folla di cittadini dolenti e composti e dignitosi – fecero vacillare il presidente del Consiglio Mariano Rumor, che non si prestò al gioco. A queste manovre accenna anche Miguel Gotor, nel suo Memoriale della Repubblica (Einaudi) che rilegge le “carte Moro”.
Dunque si sapeva. Peggio, si scoprirà dalle indagini del giudice Guido Salvini, da nuovi interrogatori e dalle nuove acquisizioni dal 2008 a oggi, che la pista anarchica era stata pianificata e preparata, individuando i capri espiatori e “vestendo i pupi” – il ballerino Pietro Valpreda, la “belva umana” come scriverà con scoop sospetto sul Corriere d’Informazione Giorgio Zicari, che si scoprirà in seguito essere uomo al soldo dei servizi, il ferroviere Giuseppe Pinelli che, i meno giovani ricorderanno, si sarebbe gettato dalla finestra confessando la propria colpevolezza e gridando “È la fine dell’anarchia” e, giova ripeterlo, era uomo mite, generoso e innocente – con mesi di anticipo. Balle, e nessuno di coloro che le hanno dette è stato giudicato da un tribunale.
Dalla serata del 12 dicembre fino alla notte del 15, quando muore Pinelli, la Questura di Milano è stata esautorata e come commissariata. Sono arrivati gli uomini degli Affari Riservati a prendere possesso delle indagini e a fabbricare la pista anarchica, erano anche nella stanzetta molto affollata in cui stava Pinelli, era impossibile non solo che non riuscissero a trattenerlo, ma che addirittura riuscisse a muoversi tra sei-otto persone in un metro e mezzo di spazio. Lo ammetterà nel 2008, interrogato dai magistrati milanesi, il numero due degli Affari Riservati Silvano Russomanno, ex ufficiale della Luftwaffe: non il solo nazista ingaggiato dallo Stato.
Monta in quei giorni uno storytelling, come si usa dire oggi, che con il senno di poi ha dell’incredibile: una sceneggiatura sciatta e sgangherata per cui un ballerino e un ferroviere sono i capi di una rete eversiva europea, e il ballerino addirittura sale su un taxi, con la valigetta che contiene la bomba, per fare 112 metri di tragitto da Piazza Beccaria alla banca in modo da farsi riconoscere e dire, quasi urlare: ecco, prendetemi, sono io.
Quella valigetta, una di quattro, era stata acquistata a Padova qualche giorno prima della strage, si scoprirà in seguito da elementi di Ordine Nuovo, la commessa e il proprietario della valigeria si affretteranno ad avvisare la polizia, che non trasmetterà l’informazione ai magistrati. Sempre in quei giorni un insegnante – e democristiano – di Treviso, Guido Lorenzon, dirà ai magistrati di Venezia che un suo amico nazista, Giovanni Ventura, gli ha raccontato di bombe messe e da mettere. Non gli crederanno e non cercheranno riscontri alle sue affermazioni, più comodo dargli del matto e screditarlo.
Passerà qualche anno prima che si sappia che gli autori della strage – e di molte altre stragi che seguiranno: per esempio quelle del 1974 in Piazza della Loggia Brescia, 8 morti e 102 feriti, e del treno Italicus, 12 morti e 48 feriti – sono i neonazisti di Ordine Nuovo, che agiscono alla luce del sole, si riforniscono negli arsenali di Gladio e frequentano i servizi segreti. A voler leggere, era tutto nero su bianco. Per esempio l’apologia di strage fatta da uno dei fondatori di Ordine Nuovo, Clemente Graziani: «Nella guerra rivoluzionaria è lecito l’uso del terrorismo indiscriminato: anche contro vecchi, donne, bambini».
Intanto il processo è stato spostato da Milano – dove il procuratore della Repubblica Enrico De Peppo giura che non si può tenere perché ci sono ventimila estremisti di sinistra armati che potrebbero intimidire i giudici popolari – nella tranquillissima Catanzaro in quel di Calabria, mentre a Reggio è in corso una rivolta contro lo Stato in cui intervengono – armati- l’Msi di Ciccio Franco e i neonazisti di Avanguardia Nazionale. Il processo avrà un iter lunghissimo che non è il caso qui di riassumere, si concluderà nel 2005 dopo essere stato spostato a Bari con la Corte d’Assise d’Appello che assolve Franco Freda e Giovanni Ventura, i capi dei bombaroli, dall’accusa di strage. Li riterrà pienamente colpevoli la Cassazione nel 2008: peccato che non possano più essere giudicati – ne bis in idem – perché messi in libertà con sentenza definitiva tre anni prima.
Così Ventura è potuto morire tranquillo a Buenos Aires, Freda sulla soglia degli ottant’anni può lodare Matteo Salvini “paladino della razza bianca in Europa”. E noi e voi, quando leggeremo nel libro di Enrico Deaglio, «quando leggerete quanta protervia, quanta “organizzazione industriale”, quanta volgarità venne usata per costruire il falso su Piazza Fontana, probabilmente penserete che gli attuali demagoghi non hanno inventato niente; anzi, che Piazza Fontana è stata il loro modello. E che tutto ciò venne costruito non da geni del male, ma piuttosto da burocrati immobili, magistrati pavidi, politici spaventati, funzionari corrotti: tutti al servizio di un piccolo gruppo di psicopatici. L’Italia ha fatto scuola».
*Enrico Deaglio presenterà La bomba mercoledì 16 ottobre alle 21 a Milano all’auditorium Demetrio Stratos di Radio popolare.
Immagine di copertina: i funerali delle vittime della strage in Piazza Duomo a Milano