Diario americano: ricordando mio padre da qui

In diarioCult, Weekend

Cosa significa pensare al proprio padre che non ha potuto condividere la tanta vita della sua, grande, famiglia tra Italia e Stati Uniti? Ricordando Beppe Viola, giornalista, scrittore e molte altre cose ancora morto troppo presto 37 anni fa…

 Il 17 ottobre, anniversario della morte di mio padre, è sempre un giorno difficile per la mia famiglia. Ritornano come dei rigurgiti immagini ormai sfumate di una giornata iniziata come le altre e finita per diventare un marchio indelebile che divide senza pietà il prima dal dopo delle nostre vite. 

Pensare a mio padre da qui, negli Stati Uniti, mi fa sempre un po’ strano. E non solo perché lui non è mai riuscito in vita sua a imparare l’inglese, ma anche perché Boston è distante anni luce da un mondo, il suo, quello milanese degli anni Settanta, e la sua presenza nel mio salotto, seppur intangibile e impalpabile, mi fa quasi sorridere.

Sono passati ben trentasette anni da quel nostro primo 17 ottobre. Una vita. E, proprio come in una vita, si pensa che alcuni dolori anche quelli più allucinanti, prima o poi si alleggeriscano, diventino una parte di noi quasi normale, e invece per me non è ancora così, o non del tutto.

Ogni anno che passa, la sua assenza diventa quasi più ingombrante, perché si accumulano tutte le cose che avrei voluto condividere con lui: prima la mia decisione di trasferirmi negli Stati Uniti, che lui avrebbe odiato, poi quella di sposarmi un americano, poi di avere ben tre figli. Ma poi il mio lavoro, di cui forse sarebbe andato fiero, ma anche i miei spazi che avrei potuto condividere con lui quando sarebbe venuto a trovarmi, le chiacchierate al telefono, le litigate, i pettegolezzi, i consigli e le risate che ci saremmo fatti.

“Oggi è l’anniversario della morte di nonno Peppi”, ho scritto nella chat della famiglia. “Dopo tanti anni, la cosa più triste rimane il fatto che non abbia visto la bellissima famiglia che siamo”. È vero.

Miliardi di volte mi sono trovata a immaginare come avrebbe reagito, per esempio, alla vicenda di mio figlio Luca, con tutte quelle ‘imperfezioni’ che lo rendono così maledettamente straordinario. Mio papà, che ha fatto ben quattro figlie sperando nel maschio, come avrebbe vissuto la nascita del primo maschio in famiglia, che invece di essere un mini-lui è così stranamente incomprensibile? Chissà come sarebbe stato il loro rapporto

Sarebbe anche fiero fino alla vergogna di Sofia e di Emma. Sofia, che questo semestre sta facendo uno stage allo Smithsonian di Washington e che vive la sua vita e i suoi successi con una compostezza invidiabile, che va avanti sempre dritta, concentrata e curiosa. Come gli piacerebbe poterla prendere un po’ in giro per la sua serietà, ma anche per i suoi tatuaggi, andare a trovarla e farsi raccontare. Raccontare lui di un mondo così distante da Sofia da sembrare quasi irreale. E Emma, che di suo nonno condivide l’impulso di indipendenza e di estrema gioia soprattutto fuori casa, l’immenso bisogno di stare sempre tra la gente, la curiosità di scoprire altri modi di stare al mondo attraverso le sue amiche che provengono da mille paesi stranieri, il suo senso dell’umorismo anche nei momenti pesanti, che richiedono all’umorismo il compito di sdrammatizzare. Emma ci arriva, ci arriva sempre prima di noi. Lei e suo nonno sarebbero una coppia irresistibile, si capirebbero al volo.

Ecco, invece tutto questo non è mai successo e non succederà mai. I miei figli, quando sono nati, avevano già perso uno dei loro due nonni, e anche loro, in fondo, sono cresciuti con un grande vuoto. Un vuoto che ho tentato disperatamente di colmare raccontando loro di questo ragazzone un po’ balordo ma geniale che era il loro nonno. 

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