Con L’italiano in 100 parole, Gian Luigi Beccaria abbandona il solito approccio storico e racconta la lingua attraverso i suoi vocaboli più significativi
A differenza della consuetudine scolastica italiana, che abitua a considerare gli studi umanistici secondo il loro evolversi storico, il nuovo libro di Gian Luigi Beccaria, intitolato L’italiano in 100 parole, ha come maggior pregio l’originalità di offrire una storia dell’italiano attraverso i suoi vocaboli più significativi. Un modo per essere più divulgativo, ugualmente puntuale e meno accademico.
Viene meno la divisione in periodi storici ben definiti. Il libro di Beccaria, infatti, ha come punti di riferimento quelle che chiama “parole-testimonio”, ovvero che esprimono «un complesso di esperienze, di idee, di concezioni dominanti» e sono proprie delle diverse epoche storiche perché ne convogliano e tramandano i principali vettori culturali. Così, se pensiamo a “gentile”, a “stampa”, a “caffè”, a “romantico”, a “contestazione”, immediatamente il peso socio-culturale che tali parole portano con sé basta a far apparire nella nostra mente tutta una schiera di autori, di fatti storici, di idee, di sommovimenti.
La prima parola è in realtà l’inizio di quella formula giuridica divenuta celebre in quanto considerata la prima attestazione di italiano. É il cosiddetto Placito capuano, datato 960: «sao ko kelle terre…», dove l’utilizzo di quello che diverrà il “che” italiano ha convinto gli studiosi a considerare simbolicamente questo atto notarile come quello di nascita della nostra stessa lingua.
Beccaria riporta anche parole che, anche se meno determinanti dal punto di vista storico-linguistico, sono in grado di soddisfare curiosità. Come “ciao”, forse l’espressione più italiana di tutte, di sicuro la più utilizzata, che deriva dal veneziano “scia(v)o”, ossia “slavo” e poi “schiavo”. Ma fin dal Quattrocento era diffuso l’uso in tutta la penisola di terminare le lettere con formule come “schiavo vostro” o “vostro servo” (lo stesso Leonardo da Vinci ne fa uso), mentre in seguito diverrà di uso popolare, come testimoniano le commedie di Goldoni.
Va poi sottolineata l’amplissima bibliografia che invita ad allargare gli orizzonti di pensiero e a interpretare questo testo con piani di lettura e possibilità di riflessione più svariati. In primis l’esigenza di riflettere sulla difficoltà secolare dell’italiano a formarsi come lingua, a definirsi in modo univoco, a fuoriuscire dalla cerchia dei letterati per arrivare ad abbracciare l’intera totalità del popolo, da sempre abituato al proprio linguaggio particolare e dialettale. Ed è per questo motivo che il discorso sulla lingua italiana non può che essere anche sociale e politico, legato alla nazione italiana, e dunque sempre attuale. A cominciare anzi dalle tante statistiche che circolano sulle difficoltà grammaticali che oggi attanagliano giovani e meno giovani, riguardo alle quali va allargata la prospettiva, non facendone più, semplicisticamente, un fatto di ignoranza e scarsa applicazione, bensì un problema culturale e storico, proprio di una nazione ancora giovane.
Significativa è la scelta di Beccaria di chiudere la serie delle cento parole con “memoria”. E non si pensi solo alla conservazione della nostra tradizione letteraria: una lingua forte sa aggiornarsi, sa accogliere stranierismi e neologismi, senza che ne venga intaccata l’identità. Ma senza memoria una lingua non vive, così come senza evoluzione essa muore; e dove si scrive lingua si può leggere “nazione”, perchè non c’è unità di popolo laddove manchi una coesione culturale e linguistica, come già cantava il Manzoni nel mai troppo lontano Marzo 1821.
L’italiano in 100 parole, di Gian Luigi Beccaria, Rizzoli, pp. 489, 18 euro