Una regia audace, che fonde con zelo a volte eccessivo il piano simbolico con quello concreto, svecchia l’immaginario legato ai drammi di Tennessee Williams, accantonando isterismi di maniera e non sacrificando la dignità dei personaggi
Nella scenografia stravagante ma memorabile che Nicolas Bovey ha concepito per il singolare allestimento de Lo zoo di vetro diretto da Leonardo Lidi, in scena al Teatro Carcano fino al 17 novembre, c’è un elemento secondario ma fortemente espressivo che riassume le dinamiche che intercorrono tra i tre personaggi della famiglia Wingfield, protagonista di questo incubo domestico in miniatura di Tennessee Williams che vide la luce sui palcoscenici di Chicago settantacinque anni fa.
L’elemento è quel polistirolo che assomiglia a nevischio, ma che è anche la sabbia dell’arena circense su cui i personaggi/clown-tristi incespicano e nella quale si tuffano, ravanano come cani e nascondono cose.
Questo polistirolo continua a colare dal palco alla platea, con uno stillicidio costante, e sintetizza (forse accidentalmente) i rapporti tra la madre Amanda, il figlio Tom e la figlia Laura: sono personaggi che si perseguitano senza volere – chi attivamente, chi passivamente – e che entrano l’uno nell’altro, riempiendosi vicendevolmente la testa con le rispettive voci, con i propri malumori e fallimenti, in un susseguirsi di tante piccole frane psicologiche.
Amanda (incarnata da una superlativa Mariangela Granelli) è una madre abbandonata che spera di ripianare le sorti della propria famiglia vedendo la figlia Laura (Anahì Traversi) sposata con qualche bravo giovane; ma la ragazza – insicura e claudicante – pare totalmente incapace di prendere qualsivoglia iniziativa, e quindi Amanda ossessiona il figlio Tom (Tindaro Granata), magazziniere frustrato con la vocazione per la poesia e per l’alcolismo, perché trovi un fidanzato alla sorella. Ma la priorità di Tom è un’altra: la fuga da questo asfissiante nucleo familiare.
La contaminazione tra questi tre caratteri e la straziante sensazione (propria soprattutto di Tom) di perdere la propria individualità è condensata nella lite fra Tom e la madre, nella quale entrambi dicono all’unisono sia le proprie battute che quelle dell’altro, in un frastornante crescendo che va dal pianissimo al fortissimo e che esige l’applauso a scena aperta.
Questo pezzo di bravura è uno dei momenti più azzeccati di una regia molto presente che – approfittando delle indeterminatezze del testo di Tennessee Williams – si sbarazza del canonico immaginario realista, evita l’isteria di maniera impostando le scene con un’alternanza di toni che tiene desta la tensione, ma allo stesso tempo confonde non poco le idee con una mescolanza troppo insistita tra il piano simbolico e quello concreto delle azioni.
Ciononostante, la lettura di Lidi ha il grosso pregio di conservare la sofferta dignità dei vari personaggi, aguzzini loro malgrado che – anche nei momenti in cui il rancore e la furia raggiungono i vertici – ispirano comunque tenerezza e comprensione (anche a Jim – il fallito amico di Tom, interpretato con tratti quasi fantozziani da Mario Pirrello – non si riesce a voler male).
Certo, Lo zoo di vetro sarà pure un dramma “degli egoismi”, che culmina con l’abbandono della famiglia da parte di Tom per cercare fortuna… ma la sua decisione però non appare biasimevole: meglio un egoismo rivendicato con convinzione che un altruismo di facciata, se l’unità familiare è una trappola che fa appassire i germi di una crescita individuale positiva.
Da un nucleo di tre persone, due vanno sacrificate perché la terza possa vivere… ma la madre e la sorella di Tom gli sono entrate dentro, e lui dovrà continuare a vivere e a lottare per la propria affermazione (così come è stato per lo stesso Tennessee Williams) portandosele dietro ovunque, come un monito di insuccesso personale che avvelenerà ogni suo successo pubblico.