Mentre viene assegnata la scorta a Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, mentre razzismo e antisemitismo rialzano sempre più spesso la testa, esce il documentario ‘Anne Frank-Vite parallele’. Le voci di sette tra le ultime testimoni si mescolano alle parole del diario affidate ad Helen Mirren e parlano con un linguaggio nuovo ed efficace ai giovani
Un piovoso giorno di inizio novembre a Milano. Con il caffè del mattino leggo notizia che a Liliana Segre, la senatrice ebrea sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, verrà assegnata una scorta per proteggerla da chi può trasformarsi da leone da tastiera (oltre 200 messaggi al giorno di insulti e vaticini di morte) in reale aggressore. E mi dico che forse davvero nulla avviene per caso se, proprio quella mattina, viene presentato il documentario su Anne Frank, l’adolescente autrice del celebre e celebrato diario che oggi compirebbe 90 anni. E se poche ore dopo mi troverò seduta in una sala cinematografica accanto a un’anzianissima signora che porta al collo il fazzoletto a strisce azzurre che indossavano i deportati nei campi di sterminio.
La signora si chiama Arianna Szöreny ed è quasi coetanea di Anne Frank. Una bimba (all’epoca undicenne) ugualmente perseguitata, tradita e deportata. Ma che ce l’ha fatta, come le altre sei ragazze ebree le cui testimonianze sono la potente ossatura di Anne Frank-Vite parallele, il documentario scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, nelle sale per tre soli giorni (11, 12 e 13 novembre) ma con un futuro di diffusione nelle scuole e in televisione (3D Produzioni e Nexo Digital e Rai cinema sono i produttori).
È importante, questo documentario. Perché sempre più spavalde sono le voci dei negazionisti e sempre più numerosi gli sfregi o addirittura gli attentati a luoghi di culto e cimiteri ebraici. Perché sempre più spesso il razzismo si spaccia per opinione e quasi quotidiani sono i cori contro gli atleti di colore. Ed è bello il lavoro fatto dalle autrici, perché Anne Frank, diventata nel tempo suo malgrado un’icona, vittima simbolo innalzata a emblema della persecuzione razziale ma anche bersaglio di offese (il suo volto riprodotto come una parolaccia – ebreo – sulle magliette della squadra avversaria) non è protagonista del documentario ma comprimaria: la sua imponente figura non fa ombra alle altre vittime ma le illumina. Come nella locandina del film, Anne è una delle tante, alle parole del suo diario si affiancano quelle pronunciate da Arianna e Sarah, Helga, Doris e Fanny, Andra e Tatiana. E quelle dei figli e discenti della Shoah: Lorenzo, il nipote di Arianna che si è fatto tatuare sul braccio lo stesso numero (82219) con cui la nonna venne marchiata a Bergen-Belsen, Francesca, violinista di fama internazionale la cui famiglia conta 46 parenti mai più tornati da Auschwitz.
Un documentario che cerca di parlare con un linguaggio nuovo di fatti antichi a giovani che poco o nulla ne sanno, girato in gran parte nella perfetta ricostruzione (a cura degli scenografi del Piccolo Teatro di Milano) dell’alloggio segreto visitabile tutt’oggi ad Amsterdam, e nei luoghi dello sterminio e della memoria. Il premio Oscar Helen Mirren è la voce guida: seduta alla scrivania dove Anne confidava a Kitty (così aveva battezzato il diario) i suoi pensieri, le paure per il futuro, ma anche le meraviglie che nel chiuso di quei muri la vita le riservava (la cotta per Peter, ospite delle stesse anguste stanze, il primo bacio), Mirren legge brani salienti del diario. Intanto fuori, nel mondo, una ragazza di oggi che vuole conoscere la storia di Anne e della più grande tragedia del ‘900, si sposta lungo le tappe della sua breve vita, tenendo a sua volta una sorta di diario: digitale, rivolto alla vittima adolescente di ieri ma soprattutto ai suoi coetanei di oggi, perché sappiano tutto ciò che lei sta scoprendo.
Ma il pezzo forte del documentario sono le testimonianze: le sorelle Tatiana e Andra Bucci, all’epoca quattro e sei anni, deportate ad Auschwitz, scambiate per gemelle e destinate agli esperimenti di Mengele, il dottor Morte: “Una kapò che ci aveva preso in simpatia ci disse di non muoverci se qualcuno ci avesse chiesto se avevamo voglia di incontrare la mamma. Lo dicemmo anche al nostro cuginetto Sergio, ma lui non resistette, fece il passo avanti e non tornò mai più”.
Helga Weiss, nata a Praga e deportata a Terezin, Auschwitz, Freiburg, Mauthausen, che come Anne teneva un diario dove però non scriveva ma disegnava e che si conservò nascosto in un muro. Sarah Montard, francese di origine polacca, che ad Auschwitz per allontanare l’orrore cantava Edith Piaf (gli italiani, racconta, cantavano “Mamma”). Doris Grozdanovičovà, che a Terezin sopravvisse governando un gregge di pecore e oggi ha nella sua casa 200 peluche di pecorelle. E Arianna Szöreny, padre ebreo ungherese e madre cattolica triestina: ha attraversato quattro campi di concentramento, dalla Risiera di San Sabba, dove vedeva salire il fumo dai camini del forno crematorio, a Bergen Belsen, lo stesso dove fu deportata e morì Anne Frank.
Prima che scorrano le immagini del documentario, appoggiata al suo bastone, la voce calma, Arianna, che nei campi ha perso sette familiari e si è vista puntare la pistola alla testa dalla belva Irma Grese, condannata a morte dopo la guerra per la ferocia con cui si accaniva sulle deportate, ha oggi parole amare per quanto sta succedendo nel mondo e anche in Italia: Anne Frank, tedesca di nascita e riparata in Olanda con la famiglia per sfuggire ai nazisti, era una profuga come lei, dice, fuggita per lo stesso motivo da Fiume, dove viveva con fratelli e genitori, per cercare scampo a Trieste. E profughi, continua, sono anche gli uomini, le donne e i bambini che fuggono dalle guerre, attraversano il mare, troppo spesso vi annegano. Ha parole dure per Salvini, Arianna, e per tutti i razzisti. Speriamo che prima o poi non abbia bisogno anche lei di una scorta.