La fedifraga più famosa dell’antichità non mise mai piede a Troia. Lo afferma Euripide e il celebre duo austro-tedesco ci costruisce sopra un’opera enigmatica che varia dal patetico al comico, dall’ironico al grottesco. Alla Scala Sven-Eric Bechtolf vira al déco mentre Franz Welser-Möst leviga la partitura lussureggiante e la getta sul pubblico con la sua inebriante portata
L’opera più enigmatica, opulenta, sublimemente goffa del duo Strauss-Hoffmansthal, Elena egizia, è in scena alla Scala per la prima volta, la seconda in Italia dopo la coraggiosa produzione del Teatro Lirico di Cagliari nel 2001, andando ad aggiungere un tassello straussiano in più al progetto di riscoperta del repertorio tra le due guerre che Pereira ha tracciato, tra gli altri, durante la sua sovrintendenza (fino a sabato 23). L’edizione è quella di Dresda del 1928, quattro anni dopo Intermezzo e cinque prima di Arabella, ed è il risultato di quella che è stata forse la fase più accidentata della collaborazione tra il compositore e il suo raffinatissimo librettista.
Il problema? Da una parte i versi brillanti, molto intellettuali e anche un po’ impertinenti di Hoffmansthal che puntano evidentemente, se non all’operetta, a un Singspiel sapido e arguto, tipo Ariadne, che in effetti può essere considerata la prima parte di un dittico che trova proprio nell’Helena il suo culmine. Dall’altra la musica sovrabbondante di Strauss, col suo involucro wagneriano con cui rinuncia alle reminiscenze alla Offenbach della Belle Hélène (che probabilmente era quello che aveva in mente Hoffmansthal), per prendere invece molto, forse troppo sul serio i suoi protagonisti, ammaliato come Faust dalla “più bella delle belle”. Quindi ne viene fuori un dramma musicale attraversato da improvvisi e contraddittori cambi di direzione nel tono, quando l’enfasi a un passo dalla tragedia cede il posto ai lazzi di elfi e spiritelli che, anche se non arrivano a un vero e proprio umorismo, mostrano con uno sberleffo l’intrinseca ambivalenza del materiale messo in scena.
La fonte è Euripide, che a sua volta riprende la Palinodia di Stesicoro, con i pochi famosi versi che ci sono arrivati: “Tu non vedesti mai le mura di Pergamo in Troia”. Insomma Elena a Troia non c’è mai andata e Paride ha rapito un fantasma, un’ombra, un simulacro: un “eidolon” che ha scatenato l’ira di Atridi e sodali vari di cui tutti sappiamo. Ma in tutto questo trambusto Elena se ne sarebbe stata placidamente in Egitto in attesa del ritorno del marito. Che sia credibile o meno questa versione (e in effetti nessuno sembra crederci davvero), lo spunto diventa l’occasione per una strana tragedia a lieto fine, molto sofisticata, se non sofistica: del resto è Euripide, mica Eschilo. Inoltre i cambi di registro, dal patetico al comico, dall’ironico al grottesco, la rendono il soggetto ideale per il percorso drammaturgico straussiano di quegli anni, tutto fondato sulla ricerca dei nostri archetipi, ma sempre in un clima sospeso di ambiguità e sottintesi consci e inconsci.
Come scrive Bortolotto, Elena egizia è “un trionfo di elusioni, un continuo rincorrersi affidato a due autori che sembrano nati per finzioni inesauribili”. Seguono due atti che sono una specie di dormiveglia musicale, in cui le voci sono talmente nette e tonanti che si rivestono di una patina irreale, come in un’allucinazione uditiva del sonno. Così come irreali sono i valzerini che a volte affiorano per poche battute dal mare orchestrale che si agita in buca, degno dell’Alpensinfonie o di un qualsiasi altro poema sinfonico straussiano, dominato con appassionato controllo da Franz Welser-Möst, mai così convincente con l’orchestra della Scala come per questa partitura lussureggiante, che il direttore ha deciso di levigare in tutti i dettagli e le sfumature, per gettarla letteralmente addosso al pubblico con tutta la sua incomprensibile e inebriante portata.
Le scene dal matrimonio di Elena e Menelao sono seguite con eroico slancio da Ricarda Merbeth e Andreas Schager, mentre Eva Mei interpreta Etra, misteriosa ninfa-principessa, amante frustrata di Poseidone, tentata dalla bellezza di Elena tanto quanto lo sono i guerrieri del deserto nel secondo atto, l’Altair deboluccio di Thomas Hampson e il sicuro Da-ud di Attilio Glaser. Quanto allo spettacolo di Sven-Eric Bechtolf, è risolto con una radio déco dentro cui si svolgono queste vicende un po’ borghesi e un po’ fantastiche, e che domina la scena dando un’interpretazione sensata alla bizzarra presenza di una conchiglia onnisciente, l’oracolo personale di Etra – ben interpretata da Claudia Huckle come soubrette.
Oltretutto la radio basta da sola a evocare gli spettri di un periodo di transizione ben preciso, e suggerisce come tema portante dell’opera gli echi bellici, che si possono riferire tanto alla Grande Guerra quanto alla guerra di Troia: poco cambia. D’altronde nel libretto Hoffmansthal spinge Menelao al limite della follia, lasciando intendere che l’intero svolgersi della mitologia antica – e quindi degli archetipi occidentali –, siano una conseguenza post-traumatica dei fatti dell’Iliade. Un altro colpo di teatro si ha quando viene svelato l’ingranaggio interno della radio, con strutture di vetro un po’ alchemiche che giustificano tutta la presenza di filtri e pozioni, complici dell’happy end di questa favola amara.
Teatro alla Scala, Die Ägyptische Helena, di Richard Strauss. Dirige Franz Welser-Möst, regia di Sven-Eric Bechtolf (repliche 20, 23 novembre)