In un monologo impalpabile e potentissimo, Lucia Calamaro tratteggia una confessione sulle fragilità dell’esistenza a cui Lucia Mascino trova la misura esatta, senza scorciatoie, per incarnare gli angoli più delicati della vita e dell’atto creativo
“È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ogni istante” scrive Cesare Pavese. Finché vivere – e cominciare – non si trasformano in prigione, nel limbo di una condanna alla coazione a ripetere, ogni istante appunto, senza le parole per dare forma a un percorso compiuto.
Così anche il vivere prende la forma dello Smarrimento, una produzione Marche Teatro. Quello di una scrittrice incatenata a esistere “a pezzi e bocconi”, come i suoi personaggi, aggrappata allo sforzo di trattenere “idee che non reggono i metri”, pochi, di una casa ricostruita per restituire una illusione del tempo (e della riuscita) che è stata. Quella su cui confidano gli editori che la forzano a una tournée – che dopo aver collezionato una settimana di tutto esaurito al Teatro Sperimentale di Ancona e aver fatto capolino a Vicenza e al Teatro Faraggiana di Novara, arriverà il 25 novembre al Teatro San Girolamo a Lucca, per poi attendere le tappe future di una serie di incontri che il testo vuole imposti per far fruttare almeno il tempo in cui anche lei come tutti lo smarrimento lo nascondeva, e forse per questo, le sue pagine conoscevano una conclusione.
Nascosti o gridati. Questa è infatti la sorte che subiscono in scena sentimenti spigolosi, che costringono a uno stato di disequilibrio. Vale anche e forse soprattutto per lo smarrimento, che diventa con grande facilità ingrediente perfetto di figure da risata grassa, inscalfibili o nevrotiche.
A meno, si direbbe, che non ci si chiami Lucia. È infatti Lucia Calamaro a scrivere un personaggio (un alter ego?) che si cerca dentro frammenti di vite scolpite ai bordi dal dolore che cercano la propria rotondità perdendosi e ritrovandosi in un luogo famigliare ingombro di “cosettaggini”.
Ed è Lucia Mascino a dare corpo a tutti loro. Ad Anna, la protagonista, a Paolo, il marito, e all’emersione di ricordi e d’immagini che danno loro un passato possibile. Ad accomunarli l’inadeguatezza al vivere nota a chiunque e da ognuno negata con terrore. Calamaro invece maneggia la materia più magmatica e complessa – “la spicciolaggine del quotidiano è anti narrativa” – e ne fa una architettura impalpabile, che si avvolge intorno alla sua protagonista seguendo le pieghe di un abito cucito su misura, per chi poteva scegliere di capitalizzare l’avventura del (primo?) monologo baciato di notorietà per compiacere lo spettatore e invece ha cercato e fortemente voluto l’azzardo di una camminata sul filo, in cui prende per mano ma chiede di essere seguita, cercando il punto esatto dove restare sospesa spostando solo l’aria.
Ed è a questo che si assiste, in un’ora di monologo che scivola con una grazia che fa desiderare che duri ancora, e fa un passo indietro – nell’ansia dell’invadenza che percorre la Lucia (le Lucie) che al personaggio scrittrice prestano forse non soltanto il nome – proprio nel momento in cui ci si è riconosciuti e specchiati, volenti o nolenti, nei dubbi, nelle fragilità. Nel vivere, a conti fatti, quando si riesce a raccontarlo per quello che intimamente è, senza pelle, senza protezione.
Una donna-sintesi che si prende il compito, gaberianamente, di “buttare lì qualcosa e andare via”, mettendosi a nudo e suggerendo senza mai forzare, senza ammiccare, dando racconto a sentimenti che non possono essere raccontati ma soltanto agiti, da gesti minimi eppure pieni di respiro.
Calamaro cerca (e trova) l’apoteosi del teatro di parola, il momento in cui questa riconosce la sua limitatezza e quindi il senso stesso del teatro e del performativo in generale: la tensione a che “il suo dirsi sia fedele al suo essere”. È così che la parola si eleva ad evento, cioè “il momento in cui si aprono delle possibilità”: quelle di una narrazione altra, di avvenimenti, storie, persino saghe, su cui questo testo apre squarci lirici, drammatici, intensi.
Ma non li cavalca, non se ne approfitta, non rassicura spostandosi nell’altrove di vite altrui a cui si può attribuire una rassicurante distanza. Quella di Smarrimento è invece la narrazione di una presenza – “esserci è tutto” – che si muove negli interstizi della vita, di uno spazio dilatato da una scena – firmata Lucio Diana – giocata sul bianco e sulla luce, a caricare l’insieme di una ulteriore impalpabilità dentro cui si ride e ci si commuove con la stessa levità.
Il merito è soprattutto di Lucia Mascino che riempie giganteggiando i vuoti di una scenografia giocata, come l’interpretazione, in sottrazione. È infatti chiamata a una prova d’attrice di difficoltà estrema, a tenere sospese – come certi giocolieri – l’attenzione e l’emozione di chi la osserva sulla punta delle dita, senza potersi mai concedere un istante di distrazione, senza perdere – e non è un caso che il suo dialogo col pubblico insista su questo – il contatto visivo da quell’oggetto in volo così difficile da avvertire. Una dimostrazione che l’interprete marchigiana arricchisce offrendo un saggio di poliedricità di sfumature – in bilico tra il comico e il tragico – su cui l’autrice si appoggia per aggiungere, a una riflessione già densissima, un filo di suggestione che tocca il lavoro del creatore di storie ma anche del teatrante.
Una messa in scena che riflette sul lavoro dell’attore come corpo-strumento abitato da esistenze d’altri, sorridendo del luogo comune dell’autore mosso e abitato da personaggi che si offendono se non li si rende per come si somigliano. Eppure ne sorride rifuggendo, ancora una volta, il clichè, perché dentro all’adagio ripetuto da tutti gli scrittori c’è in realtà la verità intima dell’atto creativo: mettere altrove, dentro vite narrate o inventate, il proprio dolore, le proprie zone buie, le incertezze.
Farlo senza corazzare gli inevitabili altri sé, senza paura di rappresentarli “incompiuti e sgusciati”: è solo così che si da corpo in maniera veramente autentica a tutti quei “verbi segretamente transitivi” di cui è composto e che rendono possibile il lavoro di chi crea e fa esistere storie. E allora quel che sembra imbarazzo e che spaventa non è altro se non il coraggio sorprendente di chi interpretando o scrivendo arriva al fondo di sé, chiamando chi guarda ad affrontare propria verità da cui ci impegniamo ogni giorno, strenuamente, a scappare: chi siamo. O, meglio ancora, per chi o per cosa, siamo. Siano pagine, persone o momenti, “qual è il tuo buon motivo”?
FOTO © GIULIA DI VITANTONIO