Sette “bigliettini” estratti dalla coppa della memoria del grande autore di cui è uscito il nuovo album “Torneremo ancora”. Una promessa? Una speranza?
“Ho bisogno della tua presenza”, cantava Battiato (E ti vengo a cercare, 1988). E molti invocano la sua. Da qualche tempo Franco si è appartato, perché il corpo gliel’ha imposto. Qualche cretino ha detto cose cattive e stupide. Tra i fan serpeggia l’inquietudine. Non c’è niente di male nel desiderare una presenza, ma quel che Battiato ha scritto e messo in musica non basta a farlo essere qui, sempre?
Di suo abbiamo qualcosa tra le mani, intendo dischi, musiche da assaporare. C’è questo discusso album “con inedito”, Torneremo ancora (Sony), che contiene un pezzo nuovo forse solo di nome, perché la canzone (co-firmata da Juri Camisasca) è come se l’avessimo sempre ascoltata, le parole riprendono motivi cari a lui e a molti: l’essere noi tutti migranti della vita perché destinati a reincarnarci finché avremo imparato a vivere. Cioè a conoscere il vero e a praticare il giusto. Di nuovo non c’è nemmeno il fatto che i 15 pezzi, tutti noti tranne il primo, siano avvolti nei timbri e nei colori della Royal Philharmonic di Londra: Battiato ha sempre cercato una dimensione sinfonica per i suoi temi anche ritmicamente più pulsanti. Di nuovo c’è solo una cosa: la fragilità della voce, registrata nel 2016, e questo inquieta, ma su un testo ch’è quasi una promessa: Torneremo ancora.
Tutti la chiedono e quasi la pretendono questa presenza, ma perché? Si affaccia il sospetto che troppi non abbiano davvero ascoltato Battiato o, peggio, non l’abbiano capito. Perché dopo 55 album, 7 composizioni classiche (opera e musica sacra), 7 video, sei film, centinaia di ore di musica, mille concerti come messe cantate da ogni pubblico possibile, versi come “Che cosa resterà di me, del transito terrestre” (Mesopotamia), “Sbucherò da qualche parte” (Vite Parallele), “Mare mare mare, voglio annegare” (Summer on a Solitary Beach), non si può non avere sentito quanto Franco abbia accarezzato la morte, ironizzato sulla morte, giocato con la morte.
Fra le mani c’è anche un’antologia: la riedizione dei tre Fleurs (Universal) usciti a suo tempo in ordine naturalmente sconclusionato, Fleurs 1 nel 1999, Fleurs 3 nel 2002 e Fleurs 2 nel 2008. Del resto, come poteva resistere alla tentazione di sparigliare una sequenza così piatta chi da Satie ha preso, non gli occhialini e la bombetta, ma l’esprit, sì.
Non sono cosa nuova i tre Fleurs, ma nemmeno una magra consolazione, perché la loro riapparizione masterizzata, anche su concretissimo vinile, fa tornare indietro al tempo in cui Franco Battiato ha cominciato a costruire la sua presenza nella musica contemporanea. Se anche non c’è musica nuova, oggi, o forse proprio perché non c’è, i Fleurs “raccontano” ugualmente Battiato come musicista. Scegliere Te lo leggo negli occhi di Endrigo-Bardotti (che può spezzare il cuore di chiunque), La canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André, la Canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel, Ritornerai di Bruno Lauzi, Impressioni di settembre di Mogol-Pfm, e perfino Ruby Tuesday di Jagger-Richards, Franco l’ha spiegato chiaro e tondo: sono canzoni che “mi accendono”. Scelte perché se gliele attribuissero, non ne avrebbe vergogna. Anzi, gli piacerebbe averle scritte.
Come autore, Battiato passeggia sotto una pergola che inizia nel 1971 con Fetus, Pollution e Sulle corde di Aries, la prima folgorazione ripetitiva dopo l’Arcobaleno in aria curva di Terry Riley. Sono quasi cinquant’anni. Assenza? Quale assenza? Flash, memorie, citazioni, versi, pensieri, paradossi saltano su dalla corteccia cerebrale di ormai tre generazioni; e ora anche di quelle che nemmeno erano nate quando Battiato scriveva. Tiriamo sette fogliettini a caso.
E il giorno della fine non ti servirà l’inglese. Era un ritornello di genitori, insegnanti, amici e anche di un vecchio presidente del consiglio: l’inglese, che quello sì che ti serve, non il latino, la storia, la filosofia. Che cosa possiamo sostituire all’inglese, di piccolo e inutile di fronte al passo estremo? Mille cose: una chat, un selfie, un like, un tweet, un black friday, moto, auto, detersivi e deodoranti. Mille cose che, come cantava Franco, ci rendono come “sabbie mobili“ che “tirano giù”. Battiato è una costellazione di profezie. Questa era in Il re del mondo (1979), capolavoro di riflessioni sulla vita: “Più diventa tutto inutile, e più credi che sia vero. E il giorno della fine non ti servirà l’inglese”. C’è qualcuno che ha un verso più fulminante per dire dei nostri abbagli su quel che conta nella vita?
Lo sapeva bene Paganini. Che cosa? Che “il diavolo è mancino e suona il violino”. Battute come questa vengono facili alla familiarità di Battiato con la musica “alta”. Il diavolo mancino che suona il violino è quello che sfida il soldatino dell’ Histoire di Stravinskij (1918), che già otto anni prima aveva scardinato l’Orchestra dell’Ottocento col pretesto di un balletto per Nijinskij e un’altra fiaba della vecchia Madre Russia. Tutti e due, Igor (Stravinskij) e Vaslav (Nijinskij), “visti” da Franco sulla Prospettiva Nevski (1980). Il violino di Paganini serve ad alleggerire domande, dubbi e pentimenti: “…quanti personaggi inutili ho indossato”. Dove? In Lode all’inviolato (1993). Per stemperare affondi esistenziali, una battuta a sfondo musicale funziona sempre alla perfezione.
Ti piace Schubert? Anche qui, memorie su memorie. Aimez-vous Brahms? è il titolo di un consumatissimo (per citazioni) romanzo di Françoise Sagan (1959) e del film di Litvak con Ingrid Bergman e Anthony Perkins (1961). Ma perché si è fissata nella memoria questa citazione “corretta Schubert”? Perché così finisce Alexander Platz, dove “c’era la neve”, dove tutto è una sceneggiatura di gesti, dialoghi tristi e silenziosi: “faccio quattro passi a piedi fino alla frontiera”, “vengo con te”. “Ti piace Schubert?” è l’ultima strofa ma non è cantata. La melodia si ferma prima. La canzone scivola in una coda pianoforte-vocalizzi che lascia di sasso. Tra fantasmi di Marlene e di Schubert, il grigiore della vita quando c’era il Muro è già lo sguardo sulle vite degli altri. Battiato regista nel 1989. Ed era solo una canzone.
Engagez vous. Altra finesse francese che questa volta fa rima con “La musica contemporanea mi butta giù”. Quanti sono pronti a condividere la cattiveria? Tutti, forse. Anche questo è un divertissement a due teste. Per alleggerire il tono di una delle sue più belle invettive, Up Patriots to Arms (1980), Franco spezza la filastrocca dei moniti (”alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena”), dei lamenti (“mandiamoli in pensione, i direttori artistici, gli addetti alla cultura”, “ma non è colpa mia se le pedane sono piene di scemi che si muovono”), agganciando la tirata contro la musica che “butta giù” e che poverina non c’entra molto. Ma è anche un gioco con sé stesso, perché lui, la musica contemporanea l’ha coltivata, eccome, anche se a distanza di sicurezza. Famoso il suo aneddoto: “Chiudete a chiave un compositore contemporaneo in una stanza e promettetegli di liberarlo solo quando avrà scritto un tema di successo. Non uscirà a vita”.
Parassiti senza dignità. Invettiva chiama invettiva. Questa appariva in E ti vengo a cercare (1988), canzone ancora profetica che gli anni duemila hanno preso l’impegno di non fare invecchiare. Nell’arte di rimescolare le carte, quella canzone era un altro capolavoro nel confondere i generi: parte come una strana specie di amore (“E ti vengo a cercare, anche solo per vederti o parlare, perché ho bisogno della tua presenza, perché in te vedo la mia essenza”), che può essere per una donna, per un uomo, per Dio o un’Entità; si converte in ricerca di disciplina (“Emanciparmi dall’incubo della passioni, cercare l’Uno al di sopra del bene e del male, essere un’immagine divina di questa realtà”), e alla fine si scopre una preghiera. Finisce infatti in un corale che quasi contraddice tutto quel che precede. Comunque, un altro vaticinio. Il secolo oramai alla fine è morto, e i parassiti senza dignità?
Minima immoralia. Un altro caffè corretto. Questa volta con un goccio di Adorno (“Minima moralia”, Meditazioni della vita offesa, 1951). Un verso ripetuto ossessivamente come una cantilena con il dito alzato, quello di vescovi e mullah quando ammoniscono i fedeli. Rintocca come un coro di monaci in Bandiera bianca, dopo aver avvertito Bob Dylan: “Mister Tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare, siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro”. E per di più “sommersi da immondizie musicali”. Era il 1981. Invecchiato qualcosa?
Abusi di potere. Un chiodo fisso per l’etico Battiato, che li addita in diverse canzoni. “Povera patria, schiacciata dagli abusi di potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore… tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni! Questo paese devastato dal dolore, nel fango affonda lo stivale dei maiali”. Vi pare invecchiata Povera patria? Non sventola più Bandiera bianca sul ponte dell’Italia? E allora che cosa ci fanno nelle piazze tante sardine che nemmeno c’erano quando Franco quelle canzoni le scriveva e che di tutt’e due potrebbero fare inni per le loro adunate spontanee?
Questi sono solo sette bigliettini estratti dalla coppa della memoria per istinto, “sulle scie delle comete”. Cento, mille e più se ne possono inseguire, con tante grazie dei fleurs, monsieur Battiato