All’Hangar Bicocca vanno in scena le armoniche installazioni del gallese Cerith Wyn Evans (1958)
Ammettiamolo, da quando l’artista Cerith Wyn Evans è esposto in Hangar Bicocca abbiamo iniziato a sentirlo nominare più spesso. La mostra cattura un pubblico eterogeneo, avvicinando all’arte anche le ultime generazioni, che non sanno resistere alla tentazione di fare foto su foto alle opere, sfruttando l’elemento scenico: i contrasti creati dai giochi di luce attirano e catturano, creano atmosfere oniriche e suggestioni.
L’artista inglese inizia la sua carriera creando cortometraggi sperimentali, ma verso gli anni Novanta abbandona la produzione filmica a favore di sculture, installazioni, performance, fotografie e interventi site-specific.
Come si varca lo spesso sipario di panno nero che divide gli ambienti espositivi in Hangar Bicocca, le opere di Cerith Wyn Evans catturano totalmente lo sguardo e dominano nello spazio.
Colonne-totem cilindriche di neon a luci calde sorreggono invisibili strutture e creano un ritmo visivo temporizzato che diventa energia e genera forme di linguaggio. L’opera è stata creata apposta per la mostra, assieme a Composition for 37 flutes che dialoga non più attraverso la luce, ma tramite emissioni sonore ottenute da sottili canne di vetro dentro cui viene spinta aria per effetto meccanico.
L’opera è sospesa, come tutte le altre da lì in poi ed evoca i suoni dell’universo e registrazioni raccolte da un radiotelescopio in un osservatorio astronomico. È un po’ come scoprire mondi e galassie nuove, con candido stupore infantile nel cercare di carpirne i linguaggi, i significati. La sensazione è di essere sul punto di decodificare qualcosa che ci sfugge.
In effetti la mostra intende raccontare proprio le sfere dell’effimero, dell’istante irripetibile e unico, come la comprensione di un suono udito per la prima volta o la percezione della luce che colpisce il nostro occhio.
Il concetto di effimero è espresso ancor meglio nelle opere centrali: grandi grovigli luminosi di luce al neon si stagliano con eleganza nella penombra espositiva. Come se qualcuno avesse lasciato aperto l’otturatore di una macchina fotografica, i gesti degli attori giapponesi del teatro nō si congelano in sinuose e confuse traiettorie bianche, in cui ogni movimento, dalla manica del Kimono a una piega del collo, significa esattamente qualcosa.
Potremmo avere in pugno tutta l’esecuzione, se solo sapessimo decifrarla.
Invece restiamo lì, fra l’incanto e l’immaginifico a guardare e fotografare con i nostri smartphone queste matasse, questi cumuli frenetici e aggrovigliati come pensieri sospesi, tenuti da mille fili tesi e ordinati, in aperto contrasto fra caos e ordine, fra noi e il mistero.
Gli omaggi ai grandi artisti non mancano. È impossibile non pensare alle installazioni al neon di Fontana, come a Calder o a Broodthaers o, ancora, a Merz e soprattutto a Duchamp, che ha fornito ispirazione anche per il nome della mostra stessa, “The Illuminating Gas”.
Nell’ultima sala, l’unica a illuminazione naturale, dei lampadari emettono luce intermittente seguendo una composizione al piano eseguita da Cerith Wyn Evans stesso, ottenendo un ipotetico alfabeto morse, che ancora una volta ci fa sentire esclusi seppure pienamente presenti, esattamente come siamo in questo mondo, in questa galassia, in questo universo sconosciuto e ammantato di misteriosi silenzi e presenze archetipe.
E=C=L=I=P=S=E si impone in mezzo alla sala: una grande scritta fissa descrive le fasi di un’eclissi di sole su diversi continenti, costringendo il nostro sguardo a sorgere e tramontare, per leggere andando a capo, esattamente come l’arco del sole durante l’eclissi.
The Illuminating Gas stupisce, diverte. Oltre all’apparente carica scenografica, la mostra dialoga ininterrottamente col fruitore in modalità intrinseche, sottotraccia. Sarebbe paradossale uscirne senza avere nulla da dire.
A cura di Roberta Tenconi e Vincente Lodolì, prosegue fino al 23 febbraio 2020.
Immagine di copertina: Cerith Wyn Evans, “….the Illuminating Gas”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio