Luca Starita, Daniela Origlia, Marta Cattaneo e Michela Fregona selezionano nove libri per arrivare all’ultima pagina con la voglia di ricominciare da capo. Una classifica senza classifica: alla ricerca della felicità.
Si poteva rinunciare alla gioia dei libri, in tempo di festa? Certo che no.
E allora eccola, la nostra classifica dei consigliatissimi, distillata per voi dalla redazione letteraria di Cultweek con un preciso scopo: fare spazio, indursi a fermare il tempo per dedicarsi a quella forma unica di compagnia tra voi e il mondo che solo i libri sanno regalare con incondizionata passione.
Se vi state chiedendo il criterio di questa scelta, è presto detto. Ci siamo posti un coscienzioso obiettivo da lettori: la ricerca della felicità.
Facile, no?
In questo tempo ferito, servono libri potenti, ci siamo detti.
Titoli di un certo tipo, ci siamo ripetuti.
Tipo?
Avete presente quel certo libro che:
1) va divorato; non saggiato, non sbocconcellato: proprio famelicamente di-vo-ra-to, dalla prima all’ultima pagina;
2) vi riempie di a) tenerezza b) serenità c) gioia d) leggerezza (anche in combinazione, o tutto insieme);
3) quando l’avete finito, resta con voi per i giorni successivi riempiendovi le ore di una poco spiegabile sensazione di pienezza/nostalgia (consolatoria e velata);
4) magari vi rivela qualcosa anche del vostro modo di immaginare e di voi stessi;
5) vi fa staccare la testa dalle magagne quotidiane come un vero amico?
Ecco: a caccia di questi titoli, siamo andati. Da regalarsi, e da regalare.
Dunque, a voi: i nostri libri felici.
Luca Starita: Trevi – Roth – Tondelli
Emanuele Trevi – Sogni e Favole
Gennaio 2020: questo libro di circa duecento pagine compie un anno. A metà strada tra saggio e romanzo, tra autobiografia e trattato artistico, Sogni e Favole è nella sua essenza più profonda un “libro strano”: l’autore si trova nella Roma del 1983 a fare i conti con una tradizione artistica che lo assorbe e da cui viene assorbito. Una carrellata di nomi invade le pagine del romanzo, essi costruiscono l’identità del protagonista, lo sfiorano, a tratti lo investono, lo ammaliano e lo catturano. Trevi ha la missione di indagare su Metastasio e sul suo sonetto Sogni, favole io fingo: realtà e finzione si mescolano fino all’impossibilità di distinguerle, l’arte diventa l’unico veicolo che può unire le due realtà e compenetrarle, diventando una sorta di portale per un altro mondo. Come Metastasio sostiene, se capita che le storie inventate suscitano in noi la stessa commozione delle vicende reale, forse, allora, di sogni e favole è fatta la vera vita.
Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
Mentre favole, e sogni orno, e disegno,
In lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
Che del mal che inventai piango, e mi sdegno
Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l’amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch’io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa’ che trovi riposo in sen del vero.
Trevi ci parla di una generazione dalla esistenza sconnessa e squilibrata, che trova nella infinita stimolazione artistica il proprio senso ultimo. Non a caso, Sogni e Favole viene affiancato al termine apprendistato: lo scrittore entra in contatto negli anni Ottanta con un tripudio dell’arte dai personaggi poliedrici che sarà il terreno su cui si fonda tutto il suo pensiero.
Il libro di Trevi è una sorta di museo in cui non reperti fisici, ma reperti mentali e immateriali vengono organizzati secondo un sistema caotico e personale e vengono messi su un piedistallo, spiegati ad un pubblico tanto distante ma assetato di conoscenza, di significato.
“Era ancora il tempo degli artisti, nel senso che questa parola poteva avere nel lento crepuscolo del Novecento, quando un poeta, un pittore, un regista erano esseri umani investiti da una vocazione, e la loro vita non era un pettegolezzo, una delle tante variabili mercantili della celebrità, ma una storia vissuta fino ai limiti dell’umano”
Come una mente a briglia sciolta, le pagine si susseguono con la sovrapposizione di date, aneddoti, fotografie, disegni, creando la mappa sconnessa e piena di dettagli di una personalità vera e immaginaria. Se è capitato, a qualcuno, di ascoltare Emanuele Trevi durante una chiacchierata, un’intervista o una lezione, comprenderà quanto facile possa sembrare l’illusione di essere in sua presenza mentre si legge il suo libro. La mancanza di filtri, il rimandare continuamente un punto ad un altro, l’allegrezza e la passione artistica con la minuziosità delle analisi si incontrano sia nel parlato che nello scritto di Trevi.
La vita dello scrittore diventa qui la sintesi fantastica di ogni vita e punto di riferimento per un incedere pieno di senso. L’esistenza, infatti, senza lo stimolo per ricercare il sogno, senza il desiderio di incontrarsi e scontrarsi con l’arte, apparirebbe soltanto un palcoscenico vuoto.
Le personalità come Patten e Amelia Rosselli che appaiono e scompaiono con ritmo casuale tra le pagine sono tutte artisti che annegano tra follia e malinconia, tra commiserazione e distacco dalla realtà, eppure, nonostante le difficoltà esistenziali, riescono ad elevarsi tramite l’arte.
“Siete sicuri di esistere davvero?” è la domanda che riassume il significato nascosto e infine rivelato del libro. La sicurezza è ovviamente messa in discussione in ogni frase, l’illusione di esistere senza ricordi è, appunto, impossibile da abbracciare.
Il senso di spaesamento, di disorientamento, di mancanza di appigli che possano subito dare un significato alle parole lette che si avverte nella lettura di Sogni e favole è risolto solo più avanti, quasi alla fine del libro, come se Trevi volesse davvero provocare l’instabilità di chi viene sommerso in una mente reale. Solo verso la fine del libro, infatti, lo scrittore ci svela il suo intento.
“Volevo tentare un ibrido fra il saggio letterario e la seduta spiritica: due nobili arti passate di moda. La verità è che incombe sempre sul vivo il compito di battere un colpo. Il tavolino tarlato traballa sulle sue zampette, ma dalle vaste, incommensurabili plaghe del passato, come da un deserto dei tartari fatto di tempo anziché di spazio, non arriva che un ironico silenzio. Metastasio o Garboli, tutti i morti finiscono per assomigliarsi. Sono evasi dal sogno, si sono risvegliati nella verità. Non hanno più bisogno di rigirarsi con le mani nessuna poesia come fosse una bussola, una traccia, una corona d’aglio da appendere alla porta per tenere lontani i vampiri”.
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Philip Roth – Patrimonio
“Il sogno mi diceva che, se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia. Non devi dimenticare nulla.”
La memoria compone il terreno tematico su cui si costruisce l’intero romanzo di Philip Roth. La ben nota lotta contro il padre che in letteratura ha da sempre trovato il suo spazio, incontra qui una sua risoluzione. Patrimonio racconta, come il titolo stesso suggerisce, di ciò che è l’essenza di una eredità. Quella di Philip Roth è un’autobiografia nuda e cruda, il figlio viene a contatto col padre defunto e ne ricostruisce i passi, ne rielabora la storia arrivando alla consapevolezza che l’essere umano esiste in quanto ricorda.
Il padre di Philip Roth è mastodontico, granitico, aderisce a quella classica considerazione di un genitore irremovibile, che ha certo momenti di debolezza ma che sembra non abbandonarsi mai all’istintualità e anche nei momenti di tristezza – come nel caso di Roth padre la perdita della moglie – riesce a mantenere una compattezza sovrumana. Eppure, nell’incontro con la sua malattia, Hermann Roth comincia a incrinarsi, a esprimere e a realizzare la sua finitezza. E qual è quindi il senso ultimo di un figlio davanti ad un padre morente?
C’è un momento, nella storia del padre e del figlio, in cui anche Philip, uomo dalla densa integrità interiore, cede.
Nel parlare di un eventuale testamento, Philip conferma al padre di voler rinunciare alla sua parte per lasciarla al nipote. Questa decisione, presa così razionalmente, provoca allo scrittore non pochi scompensi a livello inconscio: da qui, nasce l’esigenza di Philip Roth di riappropriarsi di una eredità volutamente messa da parte. La nuova eredità eletta da Philip è la memoria.
Lasciati in un angolo tutti i beni materiali, l’unica cosa che rimane del padre è lo sforzo di ricordare ogni singolo dettaglio, ogni piega dell’anima e del corpo di colui che l’ha messo al mondo. “Non devi dimenticare niente” è il mantra su cui si fonda tutto.
“Stavamo bevendo il caffè quando mi accorsi che non era ancora tornato. Lasciai silenziosamente la tavola e, mentre gli altri continuavano a chiacchierare, scivolai in casa, sicuro che fosse morto.
Non era morto, anche se forse avrebbe voluto esserlo.
Sentii il puzzo di merda a metà della scala che portava al primo piano. Quando raggiunsi il suo bagno, la porta era socchiusa, e sul pavimento del corridoio esterno c’erano i calzoni e le mutande. (…) Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i telefilm, non la tazza per farsi la barba, ma la merda. (…) ‘Devo ricordare con precisione, – mi dissi – ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me’. Non devi dimenticare nulla.”
Il ricordo si metabolizza, si dilata, si altera. Qui, il ricordo si fa anche materia, ha un colore, un odore, una consistenza che rimane all’autore sotto la forma di un residuo, qualcosa che lascia il corpo e che viene abbandonato in una parte della casa, provocando disgusto e pietà. Quello che si avverte nella vicenda della malattia di Hermann Roth è una distanza che diviene vicinanza, una incomprensione che diventa improvvisamente chiara, c’è un legame fin troppo visibile che collega padre e figlio.
Dal troppo abusato e largamente psicanalizzato parricidio arriviamo ad una resurrezione, ad un figlio che non ammazza il padre ma che lo rende vivo, di nuovo, in una esistenza non materiale ma mentale. Perché è il figlio che si immedesima nel padre, che rende sua la memoria del genitore e che si sovrappone a lui, facendoci pace e, soprattutto, trovandola, la pace.
Nella lingua inglese c’è un termine, “relief”, che in italiano viene tradotto con “sollievo”. Eppure, potrebbe essere tradotto non per forza con qualcosa che connota la positività, il sollievo è ciò che si prova quando si passa da una situazione negativa ad una positiva. Ciò che prova Philip Roth nell’incontro e scontro con suo padre e con la malattia che lo consuma è, sì, un passaggio, ma un passaggio da uno stato neutro ad un altro stato neutro, un passaggio da un’età ad un’altra, da una generazione ad un’altra.
In Patrimonio c’è il perdono, la memoria, la comprensione, l’eredità fisica e materiale che viene lasciata da chi ha vissuto prima di noi, e a tenere uniti tutti questi elementi è la concezione di una speranza che vive anche dopo la nostra morte e che supera ogni tipo di malattia e di distanza.
“E avevo io, come figlio, ricevuto una devozione meno primitiva e servile? Non sempre la devozione più illuminata: per dir meglio, una devozione dalla quale volevo districarmi già quando avevo sedici anni e cominciavo a sentirmene sfigurato, ma una devozione che ora trovavo gratificante poter contraccambiare almeno in parte sedendo sul coperchio del water a sorvegliarlo mentre lui scalciava con le gambe come un bebè nella culla. Potreste dire che non significa molto per un figlio essere teneramente protettivo verso il proprio padre una volta che questi è senza forze e ridotto quasi al lumicino. Posso solo rispondere che mi sentivo altrettanto protettivo della sua vulnerabilità.”
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Pier Vittorio Tondelli – Camere separate
“Quante parole sto ora, realmente, consumando? E di quale storia, in particolare, che ho scritto?
Lui che aveva affidato alle parole, non ancora alla letteratura, non ancora ai libri, ma proprio alle lettere e ai racconti tutta l’ansia e il desiderio di un cambiamento della sua vita, si trova ora annullato dalla mancanza di desiderio per le parole.”
Desiderio, vita, parole. E andrebbe aggiunto: musica. Quattro parole per descrivere la storia d’amore di Thomas e Leo, una vicenda a grandi linee autobiografica il cui ritmo è scandito da movimenti.
Il primo movimento, verso il silenzio. Il silenzio è quello che si crea con la morte: Thomas, malato, morirà, lasciando un vuoto incolmabile nel petto di Leo. Il silenzio è ciò che caratterizza il non detto: la coppia vive la propria relazione, che poi proprio relazione non è, in due camere separate, nei ritagli di tempo che riescono a ritagliarsi, Leo, lo scrittore, Thomas, il musicista. Il desiderio di Leo è di avere sì una relazione, di sentire la vicinanza del compagno, di vivere una vita fatta di gesti quotidiani, di sentire parole sussurrate e impaurite, ma allo stesso tempo si alimenta anche il desiderio di avere sempre pronta una via d’uscita. Il silenzio, quello che rimane tra la musica e le parole, quando entrambe smettono di esistere.
“La sua faccia, quella che gli altri riconoscevano da anni come ‘lui’ – e che a lui invece appariva ogni giorno più strana, poiché l’immagine che conservava del proprio volto era sempre e immortalmente quella del sé giovane e del sé ragazzo – una volta di più gli parve strana. Continuava a pensarsi e a vedersi come l’innocente, come colui che è incapace di fare del male e di sbagliare, ma l’immagine che vedeva contro quello sfondo acceso era semplicemente il viso di una persona non più tanto giovane, con pochi capelli fini in testa, gli occhi gonfi, le labbra turgide e un po’ cascanti, la pelle degli zigomi screziata di capillari come le guance cupree di suo padre. In sostanza un viso che subiva, come quello di ogni altro, la corruzione e i segni del tempo.”
Il secondo movimento, il mondo di Leo. Leo vive nella sua mente, la narrazione che ci fa del suo amore è veicolata dai suoi sentimenti e dalla perdita di un uomo con cui avrebbe condiviso la vita, se solo avesse avuto il coraggio. E Camere separate è la storia di un rimpianto, di qualcosa che va al di là della concretezza, al di là dei dogmi morali e sociali, di qualcosa difficile da replicare e da riscattare, perduta per sempre. Tondelli ci dona la descrizione di una quotidianità intrisa di tenerezza, di gesti perduti e non affrontati, di pensieri che galoppano verso l’unica felicità possibile, quella di aver amato qualcuno talmente tanto da non avere più la possibilità di farlo di nuovo.
“Ma in realtà cosa sapeva lui del suo compagno? Che era figlio di un modesto impiegato bavarese, che aveva due fratelli maggiori e una madre svizzera francese dal passato di musicista. Che studiava a Parigi al conservatorio. Che preferiva far l’amore in un certo modo piuttosto che in un altro. Che quando lo fissava diceva serio, concentrato, ‘Io conosco già questi tuoi occhi, Leo’. Che prima di incontrarlo aveva una ragazza con la quale abitava. Che amava la birra e il tabacco. Tanti piccoli particolari, più o meno significativi. Ma Leo ancora non era entrato pienamente nella vita dell’altro-. Forse perché aveva avuto altre storie ed era più attrezzato, più cauto, più restio ad abbandonarsi a un nuovo destino.”
Il terzo movimento, camere separate. La separazione dei due amanti non è solo fisica, dovuta alla distanza materiale per il vivere in posti diversi e in situazioni sociali diversi, e dovuta alla vita e alla morte, le vere responsabili di tutto. La loro separazione è anche mentale, l’uno concentrato sul viversi l’amore senza impegno, l’altro sul ricercare non solo un amante, ma un compagno di vita. La camera è anche il luogo dove Leo si rifugia per l’elaborazione di un lutto che non ha il ritmo consueto di quello per un familiare, per un amico, è qualcosa di diverso, che suona una musica tutta sua e che non trova consolazione nelle prassi comuni che la società ha in serbo per gli altri. Gli altri che vivono in altre camere separate, lontane da quelle in cui l’amore tra Leo e Thomas fiorisce.
“Giorno dopo giorno, seppure attraverso il disagio della lontananza, il loro rapporto si assestava e, paradossalmente, stava approdando a un equilibrio nuovo. La piccola frase, in realtà molto meno di una frase, solo due parole il cui significato però apparì a Leo disteso e sufficiente come un concetto ben elaborato, la piccola frase che si trovò a scrivere in una di queste lettere fu ‘camere separate’. E spiegò a Thomas che avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenenza ma non di possesso. Che preferiva restare solo, ma nello stesso tempo, pensava a lui come all’amante prediletto, al favorito di un fidanzamento perenne. Che non dovevano temere della loro solitudine, anzi viverla come il frutto più completo del loro amore perché, in fondo, pur nella separatezza, loro si appartenevano e continuavano ad amarsi”.
Daniela Origlia: L’Alchimia di Carter e Buddha
Angela Carter – Nell’antro dell’alchimista
Fiabe come Barbablù, La Bella e la Bestia, Biancaneve, Cappuccetto Rosso vengono riraccontate, stravolte dal genio di Angela Carter; la magia sognante e infantile nel suo immaginario si carica di sortilegio, di violenza, di sesso, di sadismo, di colpi di scena che stravolgono ogni aspettativa e la vittima diventa il carnefice.
E Angela Carter sorride beffarda di averla fatta franca sul mostro di turno e noi con lei. Noi ragazze soprattutto, perché le verginelle ingenue hanno saputo usare le candide, velate mussole in cui pudicamente si drappeggiano, come esca di seduzione per rendere schiavo, come lacci con cui legare e torturare il Bruto, la Bestia, il Male, che è il principe, il soldato, il lupo, ma è anche il padre, il marito, il fratello.
La lingua della Carter è sontuosa, barocca, strabordante; lei adora indugiare in bilico sull’ abisso, ma appena prima di precipitare nel kitsch, eccola sorridere beffarda, prendersi in giro, oppure usare il registro di una sottile, elegiaca malinconia. Paesaggi, cieli, ambienti sono incantevoli, ma in un attimo possono trasformarsi in oscure minacce. Viceversa, le torture, le violenze raggiungono vertici di erotismo e di passione cui è impossibile sottrarsi.
L’alchimista del titolo della raccolta di racconti è proprio lei, Angela Carter.
Salman Rushdie, che scrive la bellissima prefazione, ci racconta del suo ultimo incontro con la scrittrice, nell’agosto 1995, pochi mesi prima che lei morisse.
‘ La morte la faceva decisamente incazzare, ma Angela aveva una consolazione. Aveva stipulato “un’immensa” polizza sulla vita poco prima di essere colpita dal cancro. L’idea che l’assicurazione sarebbe stata costretta a elargire una fortuna “ai suoi ragazzi” ( il marito Mark e il figlio Alexander), dopo aver pagato poche rate, la riempiva di gioia e ispirava un’aria da black comedy a cui era impossibile resistere’.
La prima raccolta di racconti del 1974 si chiama Fuochi d’artificio ed è ispirata al lungo soggiorno in Giappone della Carter, che si osserva come Alice attraverso lo Specchio in quel mondo intriso di convenzionalismo da cerimonia del tè ed erotismo oscuro, macabro.
La narratrice ci presenta il giovane amante giapponese come un oggetto sessuale, così bianco, glabro, delicato. “ Mi sarebbe piaciuto farlo imbalsamare…così avrei potuto guardarlo tutto il giorno e lui non avrebbe potuto lasciarmi”.
Altro mondo prediletto da Angela Carter è quello del Luna Park, troviamo il pagliaccio, il funambolo, l’ipnotizzatore, l’imbroglione, il burattinaio. Gli amori di Lady Porpora sono una riscrittura al femminile, sensuale e mortifera, di Pinocchio. Lady Porpora, avvolta in sontuose sete e gemme dai bagliori cangianti, è una inquietante, seducente marionetta-prostituta o piuttosto una prostituta marionetta, la donnaccia si è trasformata in marionetta perché viene “mossa soltanto dai fili della lussuria”. Come la vedova nera avviluppa nella sua tela venefica i suoi amanti-aguzzini.
Walpola Rahula – L’insegnamento del Buddha
Il dono della verità supera tutti gli altri doni, scrive Walpola Rahula come dedica a tutti noi in questo suo saggio, pubblicato da Adelphi, che attraverso l’analisi e il commento dei grandi testi classici, ci accompagna, ci guida a percorrere la Via verso la liberazione dalla sofferenza.
È questo il dono che ci offre il buddhismo.
Il venerabile Walpola Rahula (1907 -1997) ha ricevuto l’educazione tradizionale di un monaco buddhista dello Sri Lanka e ha rivestito importanti incarichi nei principali istituti monastici dell’isola. Cresciuto nell’antica tradizione, ha deciso – in tempi come i nostri in cui tutto il passato è messo in discussione – di misurarsi con lo spirito e i metodi del sapere scientifico. Si è laureato in Filosofia, ha insegnato all’Università di Calcutta, è venuto in contatto con i seguaci del Grande Veicolo ( Mahayana), la forma di buddhismo praticata dal Tibet all’Estremo Oriente, ha studiato i testi tibetani e cinesi per ampliare il suo ecumenismo e si è infine trasferito a insegnare alla Sorbona di Parigi.
Questo libro è un’esposizione chiara e accessibile a tutti dei principi fondamentali della dottrina buddhista come li troviamo nei testi più antichi del Tipitaka, la raccolta in pali che gli studiosi considerano la testimonianza più antica del Buddha.
L’interpretazione di Walpola Rahula, vista la sua particolare formazione, umanistica, razionale, socratica in qualche aspetto, evangelica in qualche altro, e quasi scientifica, risulta più empatica e accessibile a noi occidentali.
Ma sentiamo direttamente dalla sua voce i suoi insegnamenti e ci rendiamo subito conto che riesce a suscitare in noi una sorta di complicità e insieme di grande gioia.
“ Fra i fondatori delle religioni, il Buddha ( sempre che ci sia permesso di considerarlo fondatore di una religione nel senso comune del termine) fu l’unico maestro che si dichiarò non esse altro che un semplice essere umano. Gli altri maestri erano o una divinità o una sua incarnazione in forme diverse, o ispirate ad essa. Il Buddha non solo era un essere umano, ma non ha mai affermato di aver tratto ispirazione da un dio o da un potere esterno…UN UOMO E SOLO UN UOMO può diventare un Buddha’.
Ognuno di noi, afferma Rahula, ha il potere di liberarsi da tutti i legami per mezzo di uno sforzo e della sua intelligenza. Possiamo considerare il Buddha come un ‘salvatore’ solo nel senso che ci ha mostrato il Sentiero che conduce alla Liberazione, al nirvana. Ma il Sentiero va percorso da soli.
La Libertà di pensiero concessa dal Buddha non ha uguali nella storia delle religioni. Questa Libertà è necessaria: la liberazione dell’uomo dipende dalla sua conquista della Verità e non dalla grazia di un Dio, siamo noi e solo noi a conquistarcela.
‘L’insegnamento è simile a una zattera che serve ad attraversare il fiume, e non a tenersela stretta’.
E ci dice ancora Rahula:
La Verità non ha bisogno di etichette: essa non è buddhista, né cristiana, né indù o musulmana.
Marta Cattaneo: Un giallo, ma non solo
Maurizio De Giovanni – Sara al Tramonto
«Niente che mi riguardi è ufficiale. Io non sono con lei in questo momento, non ci siamo mai visti. In realtà non esisto.»
Maurizio De Giovanni è noto al pubblico degli appassionati del genere giallo/poliziesco (e non solo) per aver dato vita nel 2013 a I Bastardi di Pizzofalcone, romanzo ispirato da una serie di romanzi police statunitensi dello scrittore Ed McBain. Un immediato successo per il romanziere di origini napoletane, che ha visto in breve tempo il suo lavoro narrativo trasposto sul piccolo schermo nell’omonima fiction di Rai Uno del 2017.
De Giovanni è, però, una fucina di idee e nel frattempo ha regalato al suo pubblico di lettori Sara al Tramonto, pubblicato da Rizzoli, anch’esso appartenente al genere giallo, accompagnato da note di tenerezza, coraggio e amore che sanno colpire a dovere la sensibilità di chi legge.
Sara è un ex agente di polizia che ha deciso di ritararsi dalla professione dopo la scomparsa del suo compagno, anch’egli poliziotto. È un personaggio dal passato misterioso: ogni giorno al calar del sole siede su una panchina in un parco, aspettando di incontrare, lontano da sguardi indiscreti, Viola, la compagna del figlio Giorgio, morto tragicamente in un incidente stradale. Ed è proprio grazie a Viola, che a breve partorirà suo nipote, che la nostra protagonista ripercorre le tappe della sua vita passata, facendo i conti con tutti i ricordi: la nascita di suo figlio, la vita matrimoniale infelice, la decisione di stravolgere la sua vita per amore, un amore grande, strappatole prematuramente.
La vicenda ha come filo conduttore la barbara morte di un anziano finanziere miliardario, la cui figlia, Dalinda Molfino, ex tossica dipendente, viene accusata dell’omicidio, compiuto, secondo l’accusa, per sottrarre denaro al fine di acquistare illegalmente cocaina. Un omicidio apparentemente risolto, fino a quando Dalinda non confida al goffo e stropicciato ispettore Davide Pardo di essere seriamente preoccupata per la vita di sua figlia, attualmente in affido al fratello e alla moglie; ed è questa l’occasione per Sara per ritornare a mettersi in gioco, a lavorare come una volta, sfruttando la sua ineguagliabile capacità di leggere da lontano le labbra delle persone per coglierne i discorsi, sentendosi nuovamente viva e non più invisibile:
«Tu sei speciale. Noi, tutti noi, abbiamo studiato anni, ci siamo esercitati di continuo, ma non riusciamo a fare la metà di quello che a te viene naturale. È incredibile il livello di precisione dei tuoi rapporti. Incredibile».
Al suo fianco il maldestro ispettore Pardo, convinto dell’innocenza di Dalinda, certo di voler andare fino in fondo per scoprire la verità; e un’inaspettata Viola che, in qualità di appassionata reporter e fotografa, non perde di vista neppure un dettaglio utile alle indagini. Saranno proprio loro tre, insieme, a risolvere l’intricato mistero, che si preannuncia fin dall’inizio denso di colpi di scena.
La lettura del romanzo si presenta scorrevole, piacevole e coinvolgente. Fin dalle prime pagine, il lettore è incuriosito dalla figura di Sara ed è spinto a voler conoscere meglio la vicenda. In aggiunta, l’ingarbugliato intreccio che riguarda il delitto incolla il lettore al libro e lo sfida a cercare di scoprire, prima dei tre avventurieri, l’astuto assassino.
De Giovanni concentra in larga parte l’attenzione sul personaggio di Sara, ma interessante si rivela anche quello di Pardo che conquista piano piano l’attenzione, inducendo il lettore a provare una forte tenerezza e stima nei suoi confronti.
«Pardo non credeva alle proprie orecchie: “Insomma, un improvvisato circolo di cuori solitari in una scalcinata sala da tè. Non ci hai nemmeno consultati sull’opportunità di incontrare questa signora, prima di sapere che tipa è”.»
Questo romanzo può rappresentare un gradito regalo sotto l’albero per gli amanti lettori del genere giallo/poliziesco: questi ultimi, infatti, sapranno riconoscere il giusto mix di mystery e psicologia che non può assolutamente venir meno in questa tipologia di racconti; uno stile a suo modo differente dall’intramontabile Agatha Christie, faro nella notte per i noir addicted, ma che sa appassionare a dovere. Allo stesso tempo, il romanzo può rappresentare anche un modo per avvicinare al genere anche chi appassionato non è, proprio per il contorno della vicenda: un racconto di una situazione realistica, caratterizzata da momenti felici e non, esattamente come lo è la vita quotidiana di ognuno di noi con i suoi drammi, le sue incomprensioni e i suoi doni inaspettati, ed è per questo che in essa ci immedesimiamo.
Nota: in caso di nascente dipendenza, in libreria c’è già il seguito, Le parole di Sara.
Michela Fregona: Gary, Cisneros e un bestiario impossibile.
Romain Gary – La vita davanti a sé
Madame Rosa è una ex prostituta ebrea di novanta chili, cardiopatica, che vive al sesto piano senza ascensore nella periferia parigina, circondata da un branco di marmocchi di varia provenienza.
È sopravvissuta ad Auschwitz, è sopravvissuta alla miseria, ha fatto la vita, ha continuato a campare tenendo a pigione, a giornata e no, i figli di altre prostitute, orfani, bambini congedati il tempo delle vacanze, figli di sconosciuti dal passato poco limpido.
Ed ora che le vene del suo cuore si stringono, e il cervello va e viene, ora che nessuno le affida più i bambini, in casa le resta solo Mohamed:
All’inizio non sapevo che Madame Rosa si occupava di me soltanto per riscuotere un vaglia alla fine del mese. Quando sono venuto a saperlo avevo già sei o sette anni e per me è stato un colpo sapere che ero a pagamento. Credevo che Madame Rosa mi volesse bene gratis e che ci fosse qualcosa tra noi due. Ci ho pianto su per una notte intera ed è stato il mio primo grande dolore.
Madame Rosa si è accorta che ero triste e mi ha spiegato che la famiglia non significa niente e che ci sono perfino di quelli che vanno in vacanza abbandonando il loro cane legato a un albero e che ogni anno ci sono tremila cani che muoiono così senza l’affetto dei loro cari. Mi ha preso sulle ginocchia e mi ha giurato che io ero la cosa più cara che aveva al mondo, ma io ho pensato subito al vaglia e sono scappato via piangendo.
È Mohamed la voce di La vita davanti a sé, lo sguardo limpido di un mondo mescolato, povero e umanissimo. Belleville non è ancora diventata terra di romanzo quando Romain Gary, nel 1975 e sotto pseudonimo, pubblica questo capolavoro di grazia che conquista subito il Goncourt: nessuno, fino ad allora, aveva alzato uno sguardo tanto sincero sui quartieri multietnici di Parigi, lì dove la povertà è il pane quotidiano e dove tutto (il dolore, l’abbandono, la resistenza, la volontà) è pelle viva.
Mohamed è l’occhio attraverso cui tutto questo mondo passa:
Il più grande amico che avevo a quel tempo era un ombrello di nome Arthur che ho vestito da capo a piedi. Gli avevo fatto la testa con uno straccio verde che ho arrotolato a palla attorno al manico e una faccia simpatica, col sorriso e gli occhi rotondi , col rossetto di Madame Rosa. Non era tanto per qualcuno da volere bene, quanto per fare il buffone perché soldi in tasca non ne avevo e qualche volta andavo nei quartieri francesi dove ce n’è.
Una storia di amore materno, una storia di famiglia fatta di legami di scelta, una storia di multiumanità – tenera, terribile, indimenticabile.
Sandra Cisneros – Caramelo
Ogni estate, senza battere ciglio, ovunque sia il luogo in cui hanno piantato in quel momento la loro esistenza, i tre fratelli Reyes si mettono in viaggio per la casa materna.
Tutti imbustano la loro vita stivandola in macchina e tornano a Città del Messico, perché ritrovarsi insieme nel luogo da cui sono partiti con niente in mano è vitale, come vitale è non interrompere il filo della memoria che li tiene uniti.
Nonna Tremenda farebbe il
diavolo a quattro se, ancora una volta, la tradizionale tavolata non venisse
imbandita, se lei non potesse di nuovo dispensare i suoi favori diseguali ai
figli maschi, se la sua casa non tornasse ad essere abitata di voci e di nomi, se
la segretissima ricetta del mole non
tenesse di nuovo inchiodati in cucina zie e cognate fino al momento di essere
servito (e il mole di casa Reyes è
talmente leggendario ed esagerato da diventare indelebile su tovaglie e vestiti
una volta macchiati: un legame incancellabile reso materia, al pari di quel
patrimonio di ricordi su cui si costruisce la storia della famiglia).
Così, di viaggio in viaggio, la piccola Lala cresce lungo il percorso della sua annuale Odissea chicana, popolata da un numero crescente di storie, di puro cuento, onorevoli bugie e verità straordinarie che formano l’inestricabile tessuto della memoria di casa.
Una Cadillac bianca usata.
Una Impala verde.
Una Chevrolet station wagon rossa.
Da Chicago al Messico.
Gli zii, le zie, i cugini, le liti di famiglia, i regali, i traslochi, i silenzi: l’on the road di Lala corre tra mondi e lingue limitrofe:
“Il vecchio proverbio era vero. Lo spagnolo era la lingua per parlare con Dio e l’inglese era la lingua per parlare con i cani. Ma papà lavorava per i cani e, se loro abbaiavano, lui doveva saper rispondere abbaiando. Papà ordinò il corso d’inglese in fascicoli, “Inglés sin stress”. Faceva pratica quando parlava con il suo capo, «Gud morning, ser». O quando incontrava una donna, «Au du iu du?» E se gli domandavano come andavano le lezioni di inglese, «Veri uell, tenc iu» (…) Qué strano che era l’inglese. Rozzo e diretto. Nessuno faceva precedere una richiesta da «Potrebbe essere così gentile da farmi il favore di…», come invece si dovrebbe fare. Domandavano e basta! E non aggiungevano nemmeno «Se Dio vorrà», come se avessero sempre un audace controllo del loro destino. Era una lingua da barbari! Secca come gli ordini degli addestratori di cani. «Siediti». «Parla».”
Così, nel mondo di mezzo, in quella autostrada lungo la quale le tradizioni, i pianti dei bambini che vogliono fermarsi e i ricordi si mescolano tra boleros e cucina meticcia, corrono le storie di tutti i membri che hanno costruito nel tempo il pantheon famigliare: un tempo mitico, naturalmente, e profondamente umano. Dove la magia di un Sud irriducibile dà asilo a una galleria di personaggi vividi – e, come è ovvio, contempla sempre il necessario irrazionale.
“Quando ero sporcizia”… è il modo in cui cominciamo a raccontare una storia successa prima del nostro tempo. Prima che nascessimo. Polvere eravamo e polvere ritorneremo. Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Una croce sulla fronte il mercoledì delle ceneri per ricordarci che è vero.
Per molto tempo ho creduto che il primo momento della mia esistenza fosse stato quando sono saltata su una scopa. Ricordo una casa. Ricordo la luce del sole attraverso la finestra, luce con grani di polvere che brillano nell’aria e qualcuno che spazza con una scopa di saggina. Un mucchietto di polvere sul pavimento e io ci salto sopra. I piedi che saltano su un mucchietto di polvere: ecco quando è cominciato il mondo.
Quando ero sporcizia è quando cominciano queste storie. Prima della mia nascita. Ecco come le ho sentite o non le ho sentite. Ecco come immagino siano andate. Quando io brillavo e ruotavo e felice facevo capriole nell’aria.
All’indietro nel tempo, fino ai primi del ‘900: è quello l’inizio. Quando a Città del Messico nonna Tremenda non era ancora nonna, ma era una splendida ragazza di nome Soledad, che faceva innamorare il mondo avvolta in un prezioso reboso, uno scialle color caramelo.
Miguel Murugarren, Javier Sàez Castàn – Bestiario Universale del Professor Revillod
Ecco un libro che non ha fine.
Un gioco, un potenziale generatore di immaginario, un reportage immaginifico da terre sconosciute, uno scrupoloso compendio delle maggiori specie viventi (mica per niente, effigiati in apertura, i numi tutelari dell’opera contemplano Plinio il Vecchio, Linneo, Georges Louis Leclerc de Buffon e Georges Cuvier).
Il “Mirabolante almanacco della fauna mondiale”, piccolo capolavoro dell’immaginario, edito da Logos, è costituito da ventuno incisioni, notazioni in presa diretta e commentari: ogni pagina tagliata in tre, in modo da offrire, ben oltre l’illustrazione tradizionale per fogli consecutivi (elefante, porco, cornacchia), la possibilità di 4096 combinazioni differenti. Un bestiario portentoso: ogni pagina, una storia possibile.
Di quei libri che sono poesia.