È in corso a Palazzo Reale dal 16 dicembre (e fino al 9 febbraio) l’ultimo atto delle celebrazioni per il centenario della nascita di Emilio Vedova (Venezia 1919-2006) uno degli artisti più grandi e singolari del Novecento italiano.
Curata da Germano Celant è – nella definizione dello stesso curatore – una mostra “a volo d’uccello” che si concentra sui due decenni più significativi dell’attività del maestro veneziano: gli anni ’60 e gli anni ’80.
Si svolge nella stupenda sala delle Cariatidi con un intenso prologo nella sala del Lucernario dove un’accurata biografia è punteggiata da alcuni notevoli dipinti e piccole opere di altri importanti momenti dell’artista. I pannelli della biografia ripercorrono le fasi salienti della vita di Vedova.
Le sue origini proletarie, gli inizi – a 11 anni – da garzone in una fabbrica di decorazione a smalto, dove “ruba” un po’ di colore per i suoi disegni personali, e l’attività di pulitura delle tavolozze dei pittori di piazza San Marco. Poi gli studi, l’adesione al gruppo di “Corrente”, la lotta partigiana, la rottura con il “realismo imposto” da Togliatti, l’allontanamento dal PCI cui aveva aderito nel dopoguerra, i premi vinti che gli consentono i primi viaggi di una vita profondamente cosmopolita: Brasile, Germania, Stati Uniti. L’incontro con la donna della sua vita, Annabianca Manni. Quello con Peggy Guggenheim, le Biennali, la partecipazione a “documenta 1” di Arnold Bode a Kassel (sarà presente ad altre tre manigfestazioni di Kassel).
Lo straordinario lavoro per la musica, l’amicizia con Luigi Nono (leggendario, nel 1984, la rappresentazione del suo Prometeo. Tragedia dell’ascolto con scene di Vedova, testi di Massimo Cacciari, allestimento di Renzo Piano, direzione di Claudio Abbado, nella chiesa di San Lorenzo a Venezia).
In questa “sala preparatoria” le opere sono un pastello astratto del 1945, alcune opere “geometriche” degli anni ’50, in cui sono distinguibili le influenze delle avanguardie storiche (un cuneo di El Lissiztky, per esempio). Alcune opere di suoi importanti cicli – De America del 1976, I cosiddetti Carnevali del 1973-83, De Umano del 1984, Non Dove e Oltre del 1985, il bozzetto di una delle sue più sintomatiche opere degli anni ’90 Chi brucia un libro brucia un uomo. La sala si conclude con un Tondo del 1987.
La biografia e l’osservazione delle 16 opere esposte ci preparano all’ingresso alla sala delle Cariatidi. L’allestimento è spettacolare (realizzato dallo studio Alvisi Kirimoto di Roma): una parete lunga 30 metri e alta 5 circondata da un’enorme impalcatura metallica che consente un’illuminazione perfetta delle opere (nella sala non si possono appendere le opere).
Il muro divide diagonalmente la sala in due spazi. In quello di destra sono le opere degli anni ’60: poggiati a terra o sospesi tutti e sette gli Absurdes Berliner Tagebuch ’64 Plurimo 1-7 del 1964 realizzati nella sua prima residenza in Germania e donati, nel 2002, alla Berlinische Galerie. Si tratta di opere incredibilmente belle in cui l’esigenza di “superare il quadro come oggetto”, andare oltre Fontana e Pollock, trovano una singolare soluzione in dipinti incernierati, sovrapposti, tridimensionali, leggibili da ogni lato.
Come i successivi Omaggio a Dada Berlin, del 1964-65 e Plurimo 1964, del 1964. Nella parete i dipinti più tradizionalmente bidimensionali – che hanno preceduto la svolta dei Plurimi – opere dal 1955 al 1962 in cui la pittura sembra letteralmente cercare spazio oltre la tela. I colori sono già quelli che verranno riproposti nei Plurimi: giallo intenso, blu, rosso che vanno ad aggiungersi al bianco, al nero, al collage. Eccezionalmente le finestre della sala sono aperte consentendo la vista di piazza Duomo a sottolineare il carattere “urbano” di queste opere.
Nello spazio di sinistra sulla parete sono 9 dipinti degli anni ’80. Non vi è rottura col lavoro di vent’anni prima. Le dimensioni sono più grandi. Il colore si asciuga ancora di più, prevalgono adesso le bicromie: rosso e bianco, giallo e bianco, bianco e nero, rosso e nero. La svolta è, a partire dal 1985, del formato rotondo. Disposti sul pavimento sono posti invece – dipinti da entrambi i lati – i grandi teleri rotondi di quasi tre metri di diametro che confermano la devozione per Tintoretto dell’artista veneziano.
L’ultima opera esposta è del 1993 Chi brucia un libro brucia un uomo di cui abbiamo ammirato il bozzetto nella sala precedente. È l’espressione di un artista che è stato militante per tutta la vita (fu uno dei contestatori della Biennale del 1968 e uno dei protagonisti della Biennale del 1974 che Carlo Ripa di Meana dedicò alla protesta per il golpe di Pinochet in Cile), la reazione a un atto di atroce barbarie: l’incendio dell’edificio della Biblioteca nazionale di Sarajevo da parte dell’esercito nazionalista serbo: due tondi che si incrociano come se si potessero sfogliare come un libro. L’ultima opera in ordine cronologico è Senza titolo (…als ob…) del 1996-97 che “attesta lo scontro tra superficie e briccole veneziane. Si fa ‘invasione’ e ‘urto’, un gesto dissidente rispetto alla sua stessa storia, quasi il disco potesse essere considerato un san Sebastiano che si sottopone a un rito sacrificale, quanto purificatorio” (Celant). Le briccole sono i gruppi di pali di legno che punteggiano e caratterizzano la laguna veneziana. Vedova, a quasi ottant’anni, è ancora alla ricerca di nuove soluzioni.
Come tutti gli autori più prolifici non sempre Vedova riuscì a essere coerente a se stesso. Le 54 opere presenti sono invece tutte importanti. E la misura della mostra ci consente di poterle godere con l’attenzione che meritano.
Emilio Vedova, a cura di Germano Celant, Milano, Palazzo Reale, fino al 9 febbraio.