Sanremo sì, Sanremo no, la terra dei cachi

In Musica

Riparte il festival nazionalpopolare e con esso puntuali come un orologio le polemiche. Che al solito coinvolgono il conduttore/direttore artistico. Niente di nuovo direte voi. E proprio questo è il punto. Perché il problema di Sanremo a ben vedere non è il conduttore (in questo caso Amadeus) e nemmeno Sanremo. Il problema è il Paese di cui la manifestazione canora è lo specchio

“Dio delle cittaaaaà e delle immensitaaaà”. Con una nobile lagna i Pooh vincevano Sanremo nel 1990, cantando di Uomini soli e facendo entrare nell’immaginario collettivo alcune espressioni idiomatiche. E per raccontare Sanremo 2020 useremo spezzoni, frasi, versi e versacci che hanno fatto parte di canzoni storiche del festival. Si, perché alla fine Sanremo è Sanremo, ovvero sempre la stessa gigantesca palla di blob indigesta.

“Marco se ne è andato e non ritorna più” cantava la giovane Pausini al suo debutto. E noi tutti oggi abbiamo capito che aveva ragione lui, Marco. Che è scappato dall’Italia, dal mondo, dalla galassia pur di non vedere e rivedere questo gigantesco caravanserraglio Rai, quest’anno affidato alle cure ultranazionalpopolari di Amadeus. Parliamoci chiaro, Sanremo non può essere bello, intelligente e pieno di belle canzoni. Deve essere pacchiano, fintamente elegante, con canzoni che restano in testa solo perché le senti 300 volte in una settimana. All’interno di questo amabile patchwork, c’è sempre la chicca, il brillante cresciuto nel letame (cit Faber) sotto forma di performance canora o di semplice spettacolo. Sanremo è così dalla riforma Pippo Baudo – vero creatore del format – e nessuno riesce più a cambiarlo. Cosa si può fare per provare a modificare le cose? Semplice, non guardarlo. Solo una debacle degli ascolti protrebbe convincere la Rai a cambiare il gioco. Ma temo che non succederà. Ma se potete seguite Marco, e se proprio non resistete vedetevi i due spezzoni più trash su You Tube.

“Soldi, Soldi cha cha” era il ritornello del vincitore dello scorso anno, Mahmood. Una canzone molto meglio della media, per altro. Ma qui ci serve per parlare di soldi, quelli che girano intorno alla kermesse sanremese. Ovviamente nessuno sa i conti veri del festival, però sappiamo che nel 2018 la Rai incassava per uno spot da 15 secondi oltre 200mila euro per la prima serata e per la finale, mentre nelle altre serate un passaggio valeva “solo” 40.000 euro. A Rai pubblicità puntano a portare a casa 33 milioni di euro in 5 giorni di programmazione, ecco spiegata l’importanza mediatica e il pompaggio che subiscono le notizie che arrivano dal festival. Un super business dove la musica ha un ruolo minore, almeno per i cantanti in gara: infatti la garanzia di grandi ascolti viene data dalla presenza garantita di “superospiti” come Fiorello, Tiziano Ferro o Roberto Benigni. Ripeto, con you tube o RaiPlay perdete meno tempo e vi vedete quello che conta.

“Che sei bella da morire”, cantavano gli Homo Sapiens, che non sono degli ominidi, ma una band che vinse sanremo nel 1977 con una ballad melensa e strappa mutande per gli adolescenti pop dell’epoca. Il concetto di Bella da morire è ovviamente rimasto fondamentale per fare Sanremo, e quest’anno Amadeus  è riuscito a fare incazzare compatte tutte le donne italiane con le sue affermazioni a dir poco superficiali sul ruolo della donna, sul passo indietro rispetto all’uomo di successo etc etc. E’ chiaro che ha detto una castronata vecchia e banale, ma attenzione: il punto è che Amadeus – per come lo conosco – non pensa di aver detto niente di male. Semplicemente un uomo di spettacolo nazionalpopolare con una cultura e dei gusti medi crede veramente in questi concetti. O più semplicemente non si è mai confrontato con una donna che gli abbia detto “ma sei scemo?”. Amadeus non è maschilista, è semplicemente uno che pensa come la maggioranza degli uomini di questo paese. Insomma, il problema non è Amadeus (evidentemente non abituato ad essere così al centro delle attenzioni del mondo dei media, Sanremo tritura tutto e tutti) e nemmeno Sanremo. Il problema è il paese, ma questo mi sa che lo sapevamo già.

 “Sarà saraaaà quel che saraaaaà” strillava Tiziana Rivale nel 1983, quando vinceva al festival per poi finire nel dimenticatoio. E quella sarà la via che prenderanno quasi tutte le canzoni che parteciperanno alla gara. Lo ammetto, non ne ho sentita nemmeno una in anteprima… d’altronde nella vita per fortuna ho di meglio da fare. Ma credetemi, è facile sapere cosa sentiremo: ciarpame melodico a mazzi, qualche buona performance (Bugo e Morgan, Diodato, Levante) e qualche vecchio marpione che saprà farsi valere, da Pelù ad Irene Grandi a Le Vibrazioni. E poi il trash da sciampista finita di Elettra Lamborghini, le provocazioni da finto ribelle di Achille Lauro, il rap incazzoso di Anastasio. Qualcosa di buono sicuramente ci sarà. Ma nulla che meriti di passare dalle 20.45 a mezzanotte inoltrata davanti alla tv.

Novanta minuti di applausi. Questa non ha vinto Sanremo, ma ha fatto diventare Salmo una voce conosciuta. Lui merita di essere citato per chiudere questo gioco sanremese, perché invitato a partecipare come ospite speciale ha rinunciato perché “si sarebbe sentito fuori posto”. Esatto, Sanremo è un non luogo dello spettacolo a cui – se puoi – devi saper rinunciare. Salmo ha deciso di non cantare la sua incazzatura davanti alla pellicce dell’Ariston e in scaletta fra una telepromozione e un cantante melodico ma non troppo. Come si fa a dargli torto? Fidatevi, basterà un giro su YouTube e avrete risolto.

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