Rondò 2020: la stagione di concerti di Divertimento Ensemble è sempre più focalizzata sulla musica che gravita attorno al secondo millennio. Da Gabriele Manca e Stefano Gervasoni, da Giovanni Bertelli al giovanissimo Francesco Ciurlo compositore in residence che ci ha spiegato che cosa significa sperimentare oggi e qual è il suo rapporto con la tradizione
Il nuovo anno è iniziato da poco ma l’officina musicale milanese è già parecchio indaffarata: la XVII edizione di Rondò, la stagione di Divertimento Ensemble, è stata inaugurata il 15 gennaio con un concerto dedicato alla musica di Stefano Gervasoni, compositore (bergamasco) ospite di quest’anno. La settimana successiva, giovedì 23 al Teatro Litta, si è tenuto il secondo concerto della stagione nel cui programma figuravano ben quattro compositori diversi. Insomma, anche questa volta Divertimento Ensemble offre un calendario ricco di appuntamenti e iniziative interessanti: i concerti sono affiancati come sempre a proposte alternative, tra aperitivi musicali e lezioni. Oltre che a Gervasoni sarà dedicata un’attenzione particolare a Francesco Ciurlo (milanese, classe 1987), compositore in residence di quest’anno. Proprio il 23 di Ciurlo sono stati eseguiti Greylands e À bout de souffle. Insieme a questi un concerto per oboe ed ensemble di Luigi Manfrin in prima esecuzione assoluta e due brani di Edoardo Dadone e Giovanni Bertelli. I due concerti di gennaio sono stati un assaggio appetitoso di quello che deve seguire; Grisey, Ambrosini, Kurtág sono soltanto alcuni tra i grandi nomi che saranno eseguiti, e molti altri saranno quelli dei giovani compositori che verranno presentati ex novo.
Dopo il concerto del 23 Francesco Ciurlo ci ha concesso un po’ del suo tempo per rispondere a qualche domanda.
Ascoltando Greylands (2015) e À bout de souffle (2017), distanti solo due anni l’uno dall’altro, mi pare che si percepisca una notevole evoluzione del tuo linguaggio musicale. Mi chiedo il Francesco Ciurlo di oggi come si ponga rispetto a quei brani e dove lo stia portando la sua strada…
È vero, la distanza cronologica tra i due pezzi “mente”. Greylands lo considero il mio primo pezzo ed è infatti il più vecchio ad essere stato pubblicato. À bout de souffle invece è stato un punto di svolta, nel quale penso di essere riuscito a focalizzarmi, per la prima volta, su due aspetti fondamentali della mia ricerca compositiva e cioè, da un lato, il lavoro sulla forma, che nasce e si sviluppa contemporaneamente agli altri elementi e alla fine si identifica con il pezzo stesso; dall’altro lato, la dialettica complessità/semplicità che contrappone la semplicità di questa forma, che cerco di rendere il più chiara possibile all’ascolto, con la complessità della “struttura”, intesa come un’impalcatura od ossatura. La forma di À bout de souffle, come il titolo suggerisce, cerca di “imprigionare” l’ascolto per tutta la sua durata, prendendo l’ascoltatore per la gola e lasciandolo “senza fiato” (un po’ anche come il povero flautista, nel caso di giovedì sera l’ottimo Lorenzo Missaglia) fino alla fine. Ci sono comunque dei punti di contatto tra i due pezzi. À bout de souffle è basato sulla pulsazione dall’inizio alla fine e questa pulsazione è il risultato di una ricerca di continuità formale. In maniera meno consapevole, la prima parte di Greylands anticipa la ricerca di questa continuità con la sua scansione continua di sedicesimi.
Al concerto ai brani di autori giovani (tra cui i tuoi) è seguito il concerto per oboe di Luigi Manfrin (1961), Dissipations… be(com)ing memory. E’ emersa una differenza notevole tra i primi e l’ultimo: generazionale o semplicemente di stile personale? L’elemento più evidente credo sia quello della reintegrazione di elementi eufonici e una sintassi meno frantumata e più scorrevole. Sembra che allo sperimentalismo che ha caratterizzato una certa generazione si stia lentamente accostando un tentativo di reintegrare elementi più “tradizionali”. Ti ritrovi in questa considerazione?
Direi proprio di sì, anche se questa ricerca era già presente in compositori di generazioni precedenti. Non credo che si tratti dell’integrazione di elementi necessariamente tradizionali (anche se questo è vero per molti) ma soprattutto della libertà di guardarsi indietro – e quindi re-integrare – oppure intorno, integrando elementi dalle più svariate esperienze musicali. Personalmente mi sento immerso in questo clima di libertà privo di ideologie e di dogmi, con ciò di positivo e negativo che ne consegue.
Leggendo la tua biografia ho scoperto che hai studiato con Marco Stroppa, Gabriele Manca e Giorgio Colombo Taccani. Cosa ti ha lasciato ognuno di loro? Con che ideali il giovane Francesco Ciurlo si è staccato dai suoi maestri?
Mi ritengo estremamente fortunato ad aver avuto tutti e tre come insegnanti. Ho cominciato con Giorgio Colombo Taccani alla scuola Musicale di Milano per due anni intensi di preparazione all’ammissione in Conservatorio. Il mio avvicinamento alla composizione è stato abbastanza impervio e quando ho cominciato a studiare con Giorgio non ero ancora sicuro della strada intrapresa. Quindi gli sarò per sempre grato per la domanda senza via di scampo che mi pose dopo il primo giorno di lezione: “Quando vorresti fare l’esame di ammissione per il Conservatorio?”.
A Gabriele Manca devo “tutto”: con lui ho studiato negli anni cruciali che vanno dal primo pezzo assoluto ad À bout de souffle. Penso di aver quasi “interiorizzato” la sua figura, in particolare la sua capacità di rimettere in discussione tutto e a qualsiasi punto del lavoro compositivo, il che comporta inevitabilmente molta fatica ma avvicina alle scelte giuste.
Con Marco Stroppa il rapporto diretto è ancora aperto, dal momento che sono iscritto al Konzertexamen presso la Musikhochschule di Stoccarda. Con lui ho cominciato quando il mio pensiero compositivo era già abbastanza formato ma gli devo un grande ampliamento del mio bagaglio tecnico, soprattutto per quanto riguarda la composizione assistita, di cui ero praticamente a digiuno.
Infine vorrei citare Mauro Bonifacio (che ha diretto il concerto di giovedì), che è stato mio insegnante di lettura della partitura in conservatorio e le cui lezioni hanno avuto un impatto decisamente più ampio rispetto alla lettura pianistica e le considero un’importante integrazione dei miei studi di composizione.
Quali sono alcuni compositori a cui guardi oggi? Chi ti ispira e chi ti piace.
Un compositore che ammiro molto è Georges Aperghis, del quale apprezzo – oltre ovviamente alla musica – anche la “continuità” del catalogo, che in prospettiva rivela una grande personalità compositiva.
Mi piacerebbe sapere se oltre che compositore sei anche strumentista e, nel caso, come questa cosa ti abbia o non ti abbia influenzato nel fare musica.
Ho una formazione pianistica che non mi ha portato a considerarmi un esecutore e che ho abbandonato quando gli studi compositivi sono diventati più intensi. Di fatto la mia esperienza da strumentista si esaurisce nell’aver suonato la batteria in diversi gruppi rock, e in particolare in una cover band di Frank Zappa, la Metropolis Orchestra.
Nell’atto del comporre la mia esperienza di esecutore non ha grande influenza; direi piuttosto che sia sempre stata asservita al fine compositivo.
Sono sempre rimasto affascinato dalla prima puntata di C’è musica e musica, in cui Berio chiede a numerosi compositori e musicologi Cos’è la musica e Perché la musica. Ebbene per te cos’è la musica e perché la musica?
È affascinante anche notare come lo stesso Berio però, in Intervista sulla musica, quando la domanda viene rivolta a lui stesso, evita di rispondere in maniera univoca. E mi trova d’accordo sul fatto che sia impossibile riuscire a racchiudere in una definizione un’esperienza così complessa, sia da ascoltatore che da artefice. Inoltre non ho mai sentito la necessità di interrogarmi su cosa fosse o sul perché fosse importante farla, dal momento che la musica è sempre stata una costante della mia vita e quindi qualcosa di estremamente familiare e naturale.
Immagini di Giovanni Daniotti