Citazioni colte, da Dante a Leopardi, rotolate nella canzone italiana, da Garinei a Battiato, passando per Modugno, Battisti e cento altri. Un viaggio divertente e sorprendente quello di Ranieri Polese in libreria con ‘Tu chiamale, se vuoi…’
Che c’entra Petrarca con Tony Renis? E Dante con Jovanotti? E Shakespeare con Elvis Presley? E Leopardi con l’Equipe 84?
Scopritelo in Tu chiamale, se vuoi…, denso volumetto che Ranieri Polese ha pubblicato per Archinto facendosi prestare un titolo dalla leggenda Mogol-Battisti. Si parla delle citazioni colte nella musica detta leggera; dei detriti, dei sassi, delle pietre che dalla montagna sacra della nostra letteratura sono rotolate dentro i versi della Canzone italiana, dagli anni Venti ai Duemila, da Garinei-Giovannini a Battiato.
Dante paroliere. Di molte sorprese sono capaci le 150 pagine in cui Ranieri Polese, firma di cultura e spettacoli nel Corriere anni d’oro, ha concentrato la competenza coltivata in una lunga storia personale con la musica alta e bassa del Bel Paese (già esibita nel 2017 in Per un bacio d’amor, sempre Archinto). La prima è che «Dante è il più citato dai parolieri fra i classici della letteratura italiana, con predominio assoluto della Prima Cantica» (l’Inferno), e record per l’episodio di Paolo e Francesca (Canto V), stimolante per l’evocazione di aggettivi come amanti e tremanti, di verbi come avvinghiare. «Ignorati quasi del tutto Purgatorio e Paradiso». Ma spesso è l’uomo in sé a interessare: Dante e Beatrice piacciono come coppietta di innamorati.
Qualcuno ci gioca con l’Alighieri: Paolo Villaggio, paroliere per il primo De André, gli mette i baffi nel ’63 in Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers: “Più dell’onor, potè il digiuno”. (Inferno XXXIII: “Più che il dolor”). Jovanotti fa finta di levarsi il cappello e in Serenata Rap riprende pari pari “Amor che a nullo amato amar perdona”, ma corretto da un “porco cane” (siamo nel 2003). Nove anni dopo, Battiato infila in Testamento “l’orazion picciola” di Ulisse: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza” (Inferno XXVI). Rimarrà l’unico prestito dantesco in Battiato, che tutto ha citato, da Adorno (“Minima immoralia”) ai mistici sufi.
“Il lago del mio cor” è un’immagine di cui molti si sono appropriati, magari pensando di averla inventata, ma è al rigo 20 della Commedia. I nonni ci facevano star zitti citando il detto “Un bel tacer non fu mai scritto”, ch’è attribuito a Dante, ma compare anche in un’aria sublime di Monteverdi, nell’opera L’incoronazone di Poppea (1643), libretto di Gian Francesco Busenello. Dai proverbi alla canzonetta, Dante è maestro di lingua anche quotidiana, spesso senza saperlo (noi). E ci sarà da riflettere nel 2021, per i 700 anni dalla morte.
Canzoni all’Opera. Alle sorgenti della Musica, il prestito e la citazione letteraria hanno le forme auliche del libretto d’opera, dal cui modello discende la canzone, attraverso i florilegi di arie e pezzi chiusi, con l’affermazione del foglio d’album come genere – la Romanza di Tosti -, che accelera il processo di mutazione genetica.
Il Melodramma, scriveva Pier Vincenzo Mengaldo (Strumenti critici, 1971), è il grande «collettore di detriti e scampoli della letteratura alta». Arbasino l’ha scritto e riscritto. Oggi «possiamo ormai sostituire canzone a melodramma», osserva Polese, e noi con lui. Due appendici del libro, Quando De André correggeva Leopardi e Lost in translation, sono piccole miniere di esempi a suffragio della tesi, in eccitante slalom tra Saffo e Baustelle, Catullo e Aznavour, Poe e Sfera Ebbasta.
William Presley. Inverno 1960-61. Elvis canta Are You Lonesome Tonight, canzone che non amerà mai, nonostante o forse perché «nel lungo inciso parlato – “You know someone said that the world’s a stage and each must play a part” – si replica in versione un po’ ritoccata il monologo di Jacques da Così è se vi pare, Shakespeare, Atto II (“All the world’s a stage, and all the men and women merely players”). Già: il mondo è un palcoscenico e tutti noi semplici attori.
Con l’avvento dei cantautori di razza, le citazioni di autori stranieri si moltiplicano. “Dio è morto”, cavallo di battaglia dei Nomadi e quasi sigla-ricordo di Augusto Daolio (1947-1992), Francesco Guccini, che tutto ha letto, la prende da Allen Ginsberg. De André flirta con Villon, Baudelaire ed Edgar Lee Masters. Battiato arriva a musicare i testi di un filosofo, Manlio Sgalambro, che aveva Kant, Hegel e tutto il Pensiero tedesco sulla punta delle dita, in originale. Per strade diverse si parte e si arriva a Brassens, Sagan e Yourcenar. E così via.
Tre nomi di donna risuonano molto nel repertorio leggero: Francesca (es. Non è Francesca, Mogol Battisti, 1967); Laura (es. Laura non c’è, Nek, De Sanctis, Neviani, Varini 1992); Silvia (es. Silvia lo sai, Luca Carboni, 1987). Il primo riporta a chi si è già detto; il secondo e il terzo fanno intuire quali siano gli altri due grandi saccheggiati dal Canzoniere italiano.
Petrarca ha un’idea fissa. Il padre di tutta la lirica moderna compare poco nei libretti d’Opera, annota Polese, soprattutto perché la sua lingua non è incline a un vocabolario forte e impetuoso. Ma di Petrarca, nella Canzone italiana, ricorrono diverse idee fisse. Scorriamole.
Le date. Petrarca inscrive la sua vita nei quasi vent’anni che corrono tra il venerdì 6 aprile 1327, giorno in cui vede Laura e s’innamora, e venerdì 6 aprile 1348, quando Laura muore. Si sa, sono date addomesticate, ma la simbologia resta. Nel Canzoniere (suo) risuona una filastrocca che sconfina nell’ossessione: “Benedetto sia il giorno, e il mese, e l’anno, e la stagione, e il tempo, e l’ora, e il punto, e il bel paese, e il loco ov’io fui giunto” (RVF 61, alias Rerum Vulgarium Fragmenta).
“Quando… quando… quando” canta Tony Renis a Sanremo (1962), “Dimmi quando tu verrai”, e pretende “il giorno e l’ora in cui, forse tu mi bacerai” e “non ci lasceremo mai” . “Mi son svegliato e… e sto pensando a te. Ricordo solo che… che ieri non eri con me…”. Maurizio Vandelli è fuori di testa nel forse più celebre saltar giù dal letto della canzone italiana, la mattina dopo un giorno preciso, certificato dal giornale radio: “ieri, 29 settembre….” (Mogol-Battisti, Equipe 84).
Il tempo che passa: “Quanto piace al mondo è breve sogno”, “Cosa bella e mortal, passa e non dura” (RVF 248), scrive Petrarca.
“Che giorno è, che anno è?” canta Lucio Battisti nei Giardini di marzo. E anche lui s’è perso, mentre racconta il sentimento che più morde nell’Età dell’Ansia: la paura di vivere. Già profeta di anni a venire, suoi e nostri.
Sorgente della Sorgue, Vaucluse: nel più celebre luogo petrarchesco, “Chiare. Fresche, dolci acque” (RVF 126, la) si bagnano ancora Mogol-Battisti (Acqua azzurra, acqua chiara, 1970). A Sanremo, tra il 1966 e il 1990, 6 volte si canta di “acqua chiara” e 74 di lacrime, perché acqua chiama lacrima (Canzoniere RVF 17 “Piovomi amare lacrime sul viso”).
“Cos’è che trema, sul tuo visino, è pioggia o pianto, dimmi cos’è” si chiedeva Domenico Modugno nel ‘59 (Piove). “Con le mie lacrime così” cantava accorato Mick Jagger nel ‘66, nell’unica canzone italiana degli Stones: As Tears Go By tradotta da un Dante, ma “Danpa” Panzuti. Qualcosa in tono si permette perfino Bigazzi in Lisa dagli occhi blu: “Piove silenzio fra noi” (Mario Tessuto, 1969). Ed è solo l’inizio del catalogo.
Leopardi senza fine. Il maestro di tutte le inquietudini moderne è una presenza insistente nella canzone italiana. “Che fai tu luna in ciel” (Aurelio Fierro, 1955) è giusto l’incipit del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, anche se solo per dire che lei “guarda gli amanti”. Il 1955-56 segna l’avvio di una leopardimania che contagia anche cinema e narrativa: nel 1960 appaiono I dolci inganni di Alberto Lattuada, con Catherine Spaak e Christian Marquand; nel 1965, Vaghe stelle dell’orsa di Visconti (Le Ricordanze); nel 1997 Dacia Maraini pubblica Dolce per sé.
Il palpito è un insistente “motivo” leopardiano: “A palpitar si move, questo mio cor di sasso” (La vita solitaria); “Di te pensando a palpitar mi sveglio” (Alla sua donna). Nell’Opera, lo troviamo in Rigoletto (1851), Atto I scena II “Ė il sol dell’anima/ La vita è amore/ sua voce è palpito/ del nostro core”, e Atto III “Vieni e senti del mio core il frequente palpitar”; in Traviata, Atto I scena 3 e 5 “Quell’amor ch’è palpito”; Atto III “Da questo palpito s’io t’amo impara”, “O mio sospiro, o palpito”
Ma la strada è a due sensi: Di tanti palpiti, di tante pene, capolavoro di Rossini (Tancredi) è del 1813. I Canti, Leopardi li inizia nel 1816 e li pubblica nel 1836.
Altri temi eletti: il ritorno a vivere, il fiore della vita che appassisce e si rimpiange. A Silvia: “E non vedevi il fior degli anni tuoi”; La vita solitaria: “nel fiore degli anni”; Il Risorgimento: “Sul fior degli anni”, Le ricordanze: “Dell’arida vita unico fiore”; Il sabato del villaggio: “Stagion fiorita”; Il passero solitario: “Dell’anno e di tua vita il più bel fiore”. Verdi, per mano di Francesco Maria Piave, li fa suoi entrambi in Traviata, Atto II, “Se una pudìca vergine degli anni suoi nel fiore”, e nel finale: “È strano!!…Cessarono gli spasmi del dolore/In me rinasce… m’anima insolito vigore! Ah! Io ritorno a vivere”.
Ma su tutti si alza il più rischioso e imprendibile: l’Infinito (1819). Pur se vago e immateriale, non c’è motivo più insistente nella Canzone italiana, per dire il senso del perdersi, del distacco da sé, dalla realtà, dal proprio corpo, sia pure dopo un atto d’amore. L’elenco è pure infinito: Nel blu dipinto di blu, Modugno, 1960; Il cielo in una stanza, Gino Paoli, 1960; Senza fine, Paoli, 1961; Al di là, Mogol Donida, 1961; lI mondo, Gianni Meccia, 1965; L’immensità, Don Backy, 1967; Poesia Don Backy, 1967; Senza luce, Mogol (versione italiana di A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum, 1967, caso clamoroso in cui Bach fu l’autore mascherato di un Song di successo); Il cielo, Lucio Dalla, 1967; Eternità, Camaleonti, 1970; Fantasia, Don Backy, 1971; I giardini di marzo, Mogol (Equipe 84, 1972); Il mio canto libero, Mogol, 1973; Summer on a Solitary Beach, Battiato, 1981 (“Mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare”); Sentiero nuovo, Battiato, 1981; Segnali di vita Battiato 1981.
Alla fine, sui nomi più alti della poesia, su temi forti della letteratura, assimilati nei modi più diversi, come citazioni forbite o riflessi automatici, atti volontari o inconsce memorie, quanti De André, quanti Guccini, quanti Mogol e quanti Battiato siamo costretti a contare? Qualcosa vorrà dire.
Ranieri Polese, Tu chiamale, se vuoi… (Archinto, 150 pagine, 18 euro)
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