L’invenzione degli animali: l’umanità assediata.

In Letteratura

L’ambizione della vita eterna. La tecnologia usata per cancellare la morte. Una nuova specie di animali creata per fornire agli uomini organi sostitutivi. L’osservazione scientifica per validare l’esperimento. L’incubo di un mondo di esecutori eccellenti nell’ultimo libro di Paolo Zardi.

Esistono, in letteratura, le distopie ottimiste? A leggere L’invenzione degli animali di Paolo Zardi viene voglia di dire che: sì, è possibile. Ma forse lo è perché questo romanzo, pubblicato da Chiarelettere, non è esattamente un romanzo distopico.

È vero che il mondo in cui Paolo Zardi ambienta la sua storia (un futuro neanche tanto lontano) è un mondo in cui esiste un “dentro” e un “fuori”: una parte cioè ricca, ordinata, controllata, militarmente separata da un “resto” in cui ribellione e povertà si mescolano in misura non intelligibile, e tanto meno desiderabile, da chi se ne è separato.

È vero che il potere, organizzato in modo rigidamente piramidale, è gestito dalla Ki-Kowy, corporazione hi-tech il cui inarrivabile leader (l’uomo più ricco del mondo) governa su tutto con piglio di monarca assoluto, e porta avanti scelte e strategie secondo piani misteriosi e blindatissimi, condivisi solamente con una ristretta oligarchia.

È vero anche che, nonostante l’apparente e dorata normalità dei luoghi (un ex convento a Klagenfurt, un palazzone milanese, l’intero quartiere dell’ex cittadella universitaria a Parigi) la sensazione di un controllo esterno è pervasiva: sia che si traduca negli occhi volanti degli onnipresenti droni, sia che si espliciti (sotto forma di contratto di lavoro) in centinaia di postille di doveri e sanzioni e obblighi cui ogni nuovo assunto dalla Ki-Kowy è tenuto, tramite firma in calce, a non trasgredire.

E infine è ancora vero che non si può non intravvedere una forma di controllata propaganda nella diffusione quotidiana delle notizie (e delle foto) relative alla più ambiziosa delle avventure della Ki-Kowy: l’avvio di una colonia umana su Marte – che il mondo di giù può seguire praticamente in tempo reale (nascite crescite e progressi annessi) quasi come un reality.  

Tuttavia queste, che sono forme riconoscibili del romanzo distopico, sono una cornice tutto sommato blandamente connotata: sarà che l’Europa di cui ci parla L’invenzione degli animali è raccontata dopo.

La ‘crisi’ che ha costretto Lucia, protagonista e punto di vista della narrazione, ad abbandonare Milano è passata. E le macerie dell’aeroporto De Gaulle, trascorsi sei anni da una non altrimenti specificata “tremenda esplosione”, sono già diventate sostrato su cui è stato edificato il nuovo aeroporto: il Le Pen – che, con il suo nome, fa ombra sull’immaginario del lettore con un ben preciso taglio deduttivo.

Cos’è dunque che trasforma questo (che potrebbe in fondo essere semplicemente un romanzo di invenzione futuribile) in una distopia di diverso livello rispetto ai canoni della narrazione di genere?

La tensione che si percepisce fin dall’episodio di apertura, che promette svolte ulteriori, è sostenuta con abili tratti, con particolari disseminati con misura senza che possano mai scaturire in dramma.
Si sa che c’è un muro, per esempio. E lotte.
Si sa anche c’è una frontiera, e che questa frontiera passa sugli Appennini. Anche, si sa, che Notre Dame è una rovina a cielo aperto.
E forse proprio grazie a questi dati, che si sforzano di rimanere laterali nel dipanarsi degli eventi che si innesca in chi legge la maggiore dissonanza, e si apre il fronte della più sotterranea concezione distopica di questo romanzo.

Prendiamo, ad esempio, il quartetto dei protagonisti: due coppie, diventate tali in seno al posto di lavoro (ovvero sotto l’occhio e dentro il portafoglio della Ki-Kowy).

Sono tutti giovani, e sembrano un riassunto del meglio che l’Europa senza frontiere può offrire ai suoi figli: uno è un irlandese di famiglia cattolica e numerosa nato in una periferia modesta, un altro è “uno sloveno grande e grosso, cresciuto ai confini con la Carinzia in uno degli ultimi paesi di allevatori di mucche”, una è una giovane italiana la cui intelligenza passa da Cosmè Tura alla genetica, e la quarta è un genio dei numeri pragmatica e bellissima.

Parlano, naturalmente, una lingua comune, oltre alle loro lingue di provenienza. Imparano le altre senza grandi difficoltà. Hanno intelligenze rapide.
E però.
E però, ecco: sono, tutti, estremamente docili nell’accettazione del controllo, nel metabolizzare lo stile di vita che viene loro indotto: vivono in appartamenti che non si sono scelti, rispettano calendari che vengono loro pianificati, sono comandati in città secondo piani che non contemplano altro che l’assenso – anche a costo di rinunciare ai legami affettivi.
Il motivo? Sta tutto nella loro formazione individuale: ognuno vive (e lotta) “per sé”.

“Ne avrebbe trovati molti, di ragazzi così, a Parigi, nella sede centrale, un anno dopo. Quella stessa fermezza, quella precisa determinazione. O quella fame inesauribile di riscatto, quella spinta disperata verso la salvezza che, con il tempo, avrebbe imparato a riconoscere in tutti quelli che lavoravano là dentro – anche in se stessa ne aveva trovato alcune tracce: condividevano passati dolorosi, superati solo grazie a quel particolare miscuglio di genio e perseveranza. (…) Non era come nei sogni di bambina, quando si immaginava in qualche ente di beneficenza impegnato nella lotta contro la fame, il cancro, la paura della morte, ma sapeva bene che, in quel mondo trasformato dagli eventi degli ultimi anni, l’unico modo per fare qualcosa di buono era lavorare in un’azienda con mezzi illimitati”.

Individualità ed obbedienza come scaturigini della più grande libertà possibile.

Ecco, dunque, il senso più profondo de L’invenzione degli animali, la domanda più inquietante che emerge dalla descrizione di un futuro vicino normalizzato e plausibile: se in una società le menti più brillanti e più giovani non riconoscessero più di essere una parte sociale, a cosa e fino a quanto sarebbero disposte a prestare la loro intelligenza? E, soprattutto, con quanta consapevolezza?

Poiché, di fatto, i protagonisti di questa storia non sembrano avere altra cognizione che della propria ambizione personale: ovvero, inserirsi in un sistema che dia loro senso – e non crearlo, un sistema.

Sono, così come ci vengono presentati, individui del tutto possibili, del tutto simili a tanti che incontriamo nelle nostre vite come compagni di classe, di Università, di chiacchiere. Individui che assomigliano a figli e fidanzate e giovani che già sono nel nostro orizzonte possibile: individui individuali, appunto. Post adolescenti solitari dal cervello ipertrofico – per i quali la categoria della “passione” pare non attagliarsi proprio se non nella coltivazione del proprio innato talento, ma in cui il piacere esiste solo se finalizzato.

Il frutto maturo di una società, in sostanza, aziendale.

C’è dunque, nel romanzo di Paolo Zardi, chi a uno studio bulimico arriva per costrizione altrui (Tibor), chi perché vi individua la via strumentale per rivalersi sulle proprie dimenticabilissime origini (Patrick), chi per una sorta di disagio quasi patologico (Marianne).

Così Lucia, il punto di vista da cui tutta la vicenda viene inquadrata, la sola che conservi del proprio passato la memoria del disordine dettato da scelte di volontà non sempre e non per forza lineari, sarà l’anello da cui scaturirà l’impensabile. Ed è, non a caso, l’unico personaggio dotato di una sensibilità umanistica – unica sopravvivenza in un parterre di cervelli efficientissimi, ad alto tasso economico, matematico e giuridico.

Mentre il suo fresco fidanzato Patrick viene spedito ai piani alti dell’azienda, a studiare come programmare una pianificazione per cancellare globalmente l’idea di Stato, il compito di Lucia è quello di osservare il comportamento di una nuova specie di animali: animali creati per dare organi da trapianto. Animali compatibili con gli uomini. Animali di una specie forgiata in vitro con una finalità, come afferma il capo del progetto, Hans Bauer, detto Bi, ben chiara:

“Possiamo salvare delle vite, e quindi dobbiamo farlo. Abbiamo una missione. Per quanto possa sembrare riduttivo, noi – e intendo dire noi che lavoriamo qui, e gli animali che vivono là dentro – siamo gli strumenti, i mezzi, non il fine ultimo”

Così, ogni giorno, Lucia entra nel vasto sotterraneo chiamato “il Pianeta”, dove gli animali, nati in cattività, sono rinchiusi in un habitat verosimilmente naturale, ma blindato e controllato ventiquattro ore su ventiquattro.

Il suo compito è annotare i comportamenti della nuova specie ibridata, analizzarne lo stato di salute, studiare il modo migliore per farla crescere, monitorare le cavie che scientificamente devono essere trattate, e nominate, e considerate – senza alimentare alcuna speculazione filosofica.

Finché gli animali restano animali l’etica del progetto è infatti salva.

In questo versante si dispiega la più interessante questione posta dal libro di Paolo Zardi: nel descrivere una società in cui la coscienza individuale è assediata da un sistema di valori basato su utilità, prevalenza, forza e profitto, si pone l’attenzione sulle conseguenze estreme che possono scaturire dalla rinuncia dell’uomo alla sua stessa umanità.
Poiché solo nell’esercizio della propria coscienza è possibile il riconoscimento delle coscienze altrui.

Quando qualcosa va oltre la norma prevista, nell’esperimento all’interno del “Pianeta”, Lucia decide di agire: proprio la sua azione è il testimone ottimista della distopia sociale rappresentata da Paolo Zardi. Che, con scrittura asciutta, controllata e precisa spinge il lettore sulle pagine di una vicenda in cui tutto sembra perduto, fino all’ultima svolta.
Dettata dal libero arbitrio.

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