Addio a Filippo Azimonti, uno di noi dal primo giorno di questa giovane avventura, in cui ha messo le sue doti: passione giornalistica, cultura, ironia
Scrisse Oscar Wilde, in un momento di acuto umor nero, all’uscita di prigione, che l’ottimista è uno che crede di vivere nel migliore dei mondi possibili, mentre il pessimista ne è sicuro. Se è difficile definire oggi il mondo con un aggettivo diverso da complesso, che è più di complicato e meno di preoccupante (però…), di sicuro è meno ricco e intelligente perché abbiamo perso Filippo Azimonti.
Il “nostro” mondo, il “suo” mondo, fatto di giovani e meno giovani, donne e uomini che a Milano vive, lavora, si batte da tempo immemorabile (scusate l’iperbole), diciamo con alterne fortune per non buttarci giù, perché le cose vadano un po’ meglio, secondo più giustizia, intelligenza, razionalità. Bellezza, anche. E per farlo ha sempre pensato che la cosa più importante sia capirla, la realtà, guardarla per quello che è anche quando costa fatica, e magari non ci piace, cosa che succede, a volte; e interpretarne i codici, i segnali nel modo più lucido possibile, per poi comunicare tutto questo agli altri, a più persone possibili, anche non simili a noi, se ci si riesce. Perché ogni persona in più che si convince a ragionare con la sua testa e non per schemi di parte, slogan, mode, quadretti precotti, editti di personalità carismatiche (presunte o reali) è un’arma in più che abbiamo anche per proporre soluzioni diverse a ciò che non va.
Studiare, ragionare, comunicare le proprie idee, intervenire. Questa è stata la storia di Filippo, e di molti di noi. Lui l’ha praticata sempre, da quando “fece il 68” al Berchet, alle molte facce successive, anche recenti, del suo impegno sociale, politico, umano, professionale, da Radio Popolare a Reporter, da Repubblica fino alla nostra avventura di Cultweek, alla quale, davvero con gioia, gli abbiamo proposto di partecipare da fondatore e responsabile della pagina di Letteratura e nella quale è entrato con entusiasmo, accogliendo l’invito di amici storici che hanno visto in lui ancora una volta il compagno ideale di strada, ma anche di molti recenti, e assai più giovani – ma di certo non meno affettuosi – critici, giornalisti in progress. A loro volta nuovi amici.
Filippo sapeva di molte cose: giornali, politica, economia, cinema, letteratura, e aveva un tratto un po’ enciclopedico, in un senso culturalmente ricco: è stato tra gli entusiasti delle nuove tecnologie e le ha usate sempre con competenza, nel fare giornali e dire la sua in privato, dagli anni ’80 quando i “videoterminali” (allora si chiamavano così) entrarono nei giornali tra le mille diffidenze di un mondo antiquato e provinciale (quello dei giornalisti: non tutti, molti sì) all’era dei blog, di Facebook e Twitter. Ma nello stesso tempo passava pomeriggi interi alla Biblioteca Sormani, che tutti noi amiamo e dove abbiamo passato anni a studiare (o far finta di) consultando le annate dei giornali per sfornare quella sua piccola ma preziosa rubrica su ciò che accadeva 50 anni fa, che giorno per giorno dalle pagine milanesi di Repubblica parlava quasi con la stessa attualità del resto delle notizie, davvero di giornata.
In questi giorni tanti hanno scritto dell’umanità, della comunicativa, della simpatia di Filippo, che, è vero, evitava il conflitto personale quasi con un eccesso programmatico. Ma per gentilezza di approccio. E così anche della sua proverbiale riservatezza su continenti interi della sua vita, che porta ora molti di noi perfino un po’ a rimproverarlo per non averci mai detto quanto stava davvero male, fisicamente.
Su tutto, però, ci piacerebbe ricordarlo per la sua ironia, che era sempre affettuosa: sfottò, mai scherno, verso tutti, amici e meno amici, deboli e potenti. E per l’understatement che faceva sembrare normale anche le mole non indifferente di lavoro e impegno che metteva nella cose, sul lavoro (come si dice a Milano) e fuori. Perché, permetteteci di scriverlo, Filippo era un prototipo di quanto sa dare di meglio, quando ci riesce, questa, che a volte, per fortuna, sa ancora essere la grande città che amiamo.