La nostra contributor Palumbo sulle misure atte a tutelare la salute delle persone nelle drammatiche ore del Coronavirus. Misure che hanno colpito anche il settore teatrale. Esagerate? Legittime? Ecco alcune riflessioni – assolutamente personali
Ci si è chiesti per secoli se davvero William Shakespeare fosse stato nell’Italia in cui ha ambientato alcune delle sue più note e fortunate opere. Secondo Stefano Sieni, non solo quel viaggio ci fu davvero, ma è sul lago di Garda che il bardo potè sfuggire e poi guarire dalla peste che infestava Londra, prima di concedersi alcuni mesi di viaggio in Lombardia e in Veneto. Era il 1592, e a Londra i teatri erano appena stati sprangati, per tentare di arginare l’epidemia di peste.
Sarebbero rimasti serrati per due anni, dopo i quali il teatro non sarebbe stato più lo stesso. Mentre in chi vuol far sfoggio di cultura si sprecano rimandi alla peste manzoniana e al Decamerone, è a questa drammatica serrata che torna invece la mente dei teatranti. La stessa che oggi, cinque secoli più tardi, ha imposto il Ministero della Salute, per arginare il contagio del “misterioso” Coronavirus.
Il nord Italia, che produce, secondo Federvivo, la metà del fatturato dello spettacolo nostrano, si scopre così spaventato. La propria fragilità – soprattutto economica – il sistema teatro non ha purtroppo bisogno di scoprirla, mentre si è costretti ad annullare 7400 repliche, incassando una perdita di almeno dieci milioni di euro.
Ma a gettare la maschera è soprattutto l’istituzione. Che ha fatto chiudere teatri – così a Milano – già nel pomeriggio di domenica, con gli attori già in costume pronti a entrare sul palcoscenico. Troppo pericoloso assiepare troppe persone in uno spazio chiuso.
Non così, però, per ristoranti, supermercati e bar, prima o dopo l’orario serale, il cui apporto alla limitazione del contagio è stato demandato al senso di responsabilità personale.
Senza entrar nel merito della necessità sanitaria di simili misure, la ricaduta economica è ancora tutta da valutare: resta da vedere, in caso di riapertura nelle prossime ore e nelle prossime settimane, quanto drastico sarà il calo delle prenotazioni, mentre a essere in ginocchio è già il Teatro Ragazzi che, annota Carlotta Viscovo, attrice e coordinatrice sindacale regionale, ha visto annullare le uscite didattiche per diversi mesi, molto oltre la soglia d’allarme per l’epidemia. È però il significato culturale della chiusura di teatri e cinema a rivelarsi significativo.
Di fronte a una emergenza – comunica l’istituzione, agendo in questo senso – si è chiamati a distinguere tra ciò che è necessario e ciò che è esclusivamente ricreativo. Bar e ristoranti rientrano evidentemente nella prima categoria, cinema e teatri nella seconda.
Di fronte alla tragedia e alla paura sul cui fuoco si è soffiato per giorni, quale ridicolo sacrificio – sembrano dire le ordinanze – è rinunciare a una serata di svago.
Sono bastati pochi giorni, dunque, a capire perché la cultura italiana è così in sofferenza, e un virus arrivato in business class dalla Cina a dimenticare che anche la cultura è un antidoto contro la paura.
Quella che sembra una frase fatta, viene invece dimostrata ai tempi della prima epidemia ‘social’ della storia. “Se si chiudono le scuole, i musei, le aziende, deve essere grave”, si rincorrono le voci, mentre l’inquietudine si autoalimenta.
E lo spettro della morte, della peste che infetta e uccide senza perdono, si impossessa dei sani, dei forti. Afferra le menti e le stravolge, gettandole in una schizofrenia di terrore e impotenza, dove – nel migliore dei casi – ci si affretta a fare una lista dei sacrificabili, a ricordare che tanto le vittime designate sono soltanto i più fragili.
Non è questo che dice chi chiede la riapertura delle sale: la mano libera al contagio, la sottovalutazione, l’umiliazione di chi, sapendosi o sentendosi più fragile, scelga di avere cura di sé.
Al contrario. È di fronte alla paura che il teatro torna rito, e dimostra la sua autentica funzione. È il teatro che insegna ad affrontare la morte: ogni volta che un bambino ha detto “facciamo che ero” – ha scritto Lucilla Giagnoni – ha fatto una esperienza di morte, il proprio morire a un ruolo e rinascere a un altro. In un tempo in cui si rincorre l’esigenza della razionalità – dimenticando però che le norme d’igiene minima hanno un ruolo fondamentale nel contrasto al virus – ci si arrende alla paura anziché provare – con raziocinio – a esorcizzarla.
Si ricorda al fruitore la sua stupidità, impedendogli ciò che altrimenti senza dubbio farebbe. Se si fossero tenuti aperti i teatri, si dice, nessuno avrebbe capito la gravità della situazione, espandendo il contagio a macchia d’olio. Ed è proprio questo tipo di osservazione a dire l’importanza dei teatri, di tutti quegli strumenti di cultura che allenano il discernimento, anche quello necessario a scegliere se andarci o meno.
Ed è proprio qui che il teatro, malgrado tutto resiste. Lo fa nel’ironia – una dichiarazione di dignità, la certificazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita, ebbe a dire Romain Gary – di chi, come l’attore Daniele Marmi, per compensare, chiede ‘imposizione di una Frequenza Teatrale Obbligatoria Universale 365 giorni all’anno, per aver cura di noi stessi “anche se non ci piace” prima che per risollevare un settore. Resiste nelle parole di chi ne fa uno strumento pratico di gestione della paura, come l’attore e drammaturgo Carlo Guasconi, che dal focolaio dell’epidemia toglie il teatro dai palchi per restituirlo alle strade, e dal primo giorno scrive un diario della quarantena che racconta – e a suo modo porta in scena – la vita di chi è toccato dalla paura più da vicino, e in mezzo all’isteria riscopre invece la forza di stare insieme, di essere “incontro tra un racconto vivente e un pubblico altrettanto vivente” dice Lella Costa: cioè teatro: quella scenica verità che, ha scritto Giovanni Testori, esiste perché ha saputo inossarsi, farsi realtà. Per raccontarla e affrontarla, anche quando genera terrore.