L’infanzia cruda e straordinaria di una bambina, figlia di un clown e di una donna “dai capelli d’acciaio”: la roulotte, i giochi, i viaggi, la paura della morte, Dio, la nostalgia per un paese in cui non si può tornare, la necessità primaria dell’amore. Un romanzo ad alto tasso di umanità, del quale, facilmente, si finisce per sottolineare ogni singola frase. Commovente e feroce. In tutto: eccezionale.
Se quando vi nominano un clown vi viene la tristezza (o, al massimo, l’angoscia da IT); se il circo lo evitate perché gli animali in cattività anche no – però il circo senza animali non vi fa abbastanza circo; se l’ultima storia di adolescente girovago che avete letto è quella di Huckleberry Finn e con Mark Twain considerate chiusa la questione.
Se, insomma, pensate che con le acrobazie, i domatori e la vita a zonzo per il mondo non si possa più, oggi, fare letteratura, vuol dire che ancora non avete letto Perché il bambino cuoce nella polenta di Aglaja Veteranyi, pubblicato da Keller.
Che è, in due parole due, un libro straordinario.
Solo i libri straordinari, in effetti, sono in grado di far stare insieme una lingua asciutta – eppure precisissima, e intensa -, uno sguardo originale e vivo, e una voce talmente limpida da far scolorire perfino la crudezza di quello che viene raccontato.
E, per sovrappiù, trasformare il tutto in una materia che si muove tra il magico e la poesia.
Ben più di una autobiografia, e molto oltre la favola per grandi, Perché il bambino cuoce nella polenta è, prima di tutto, un romanzo.
La prima persona, il punto di vista, è quello della voce della sua protagonista: una bambina, la piccola di una famiglia di circensi, figlia della “donna dai capelli d’acciaio”, che cammina sotto la cupola del tendone, nel cielo, una madre che è per lei fonte estrema di amore infinito e di paura folle, insostenibile e misteriosa.
Tutto il giorno aspetto la sera. Se mia madre non cade dalla cupola, dopo lo spettacolo mangiamo insieme brodo di pollo.
(…)
Non devo fare arrabbiare mia madre, altrimenti lei può cadere. Non voglio essere viva se lei è morta.
Potrebbe succedere ogni giorno.
La mattina dormo a lungo, per accorciare la paura prima della sua esibizione.
Poi c’è il padre: clown acrobata e bandito; che parla con il suo frac come con una persona; che vorrebbe in realtà fare l’attore; che di botte è parecchio generoso (“Nel paese da dove viene lui è normale”); che ha l’ambizione del cineasta, la genialità creativa e strampalata di chi si deve inventare mezzi che non ha, il pallino delle trame pulp in cui arruola obbligatoriamente tutta la famiglia, cane compreso.
“Mio padre si ubriaca normalmente, senza bere non sale nemmeno sulla fune, perché se no gli manca l’equilibrio”.
C’è poi una sorella, di due anni più grande, ma già quasi donna: pietra di paragone in tema di preferenze filiali, oggetto di desiderio adulto non esattamente limpido; sorella che sorella non è, figliastra più che figlia; matta, coraggiosa, e, all’occorrenza, vicemadre.
Infine, una zia: che legge il futuro nei fondi di caffè, parla con i morti e ha il pallino di Hollywood.
Questa è, la famiglia: scappata dalla Romania della dittatura lasciando indietro l’angoscia, i parenti, la memoria.
Qui ogni paese è all’estero.
Il circo è sempre all’estero. Ma nella roulotte c’è casa. Apro la porta della roulotte il meno possibile, perché casa mia non evapori.
Le melanzane arrostite di mia madre profumano ovunque come a casa, non importa in che paese siamo.
(…)
Conosco il mio paese solo dall’odore. Profuma come la cucina di mia madre.
Mio padre dice che dell’odore del proprio paese ci si ricorda in qualsiasi posto, ma lo si riconosce soltanto quando si è lontani.
Da qui, dunque, dall’interno di un roulotte che vaga per l’Europa (ma anche per l’Africa) inizia il libro, che è diviso in tre parti, ciascuna legata a un momento dell’infanzia della protagonista: prima di tutto il circo, la vita nomade, la precarietà di una condizione di lontananza perenne.
Non possiamo affezionarci a niente.
Io sono abituata a sistemarmi ovunque in modo da trovarmi bene.
Devo solo stendere su una sedia il mio fazzoletto blu.
Quello è il mare.
Accanto al letto ho sempre il mare.
Devo solo scendere dal letto, e già posso nuotare.
Per nuotare nel mio mare non importa saper nuotare.
La notte copro il mare con la vestaglia a fiori di mia madre, in modo che i pescecani non mi prendano quando devo fare pipì.
La paura.
L’eccesso.
La povertà.
Ogni misura, nell’infanzia, ha una dimensione e una prospettiva diversa. La perdita possibile è solo quella dei genitori, l’eccesso è una valutazione puramente soggettiva, la povertà è qualcosa da cui scappare a gambe levate (e, per quanto povero uno sia, è ancora e sempre possibile un ulteriore scalino di povertà).
Questo ricorda Aglaja Veteranyi con gli occhi della sua piccola protagonista: crescere in un circo è cosa tagliente, ma la capacità di assorbimento di un bambino, il suo sguardo nudo a-pregiudiziale, è molto, molto più potente. Persino quando la questione è avere a che fare con Dio (“Dio è un cuoco che mastica le bare con i suoi dentoni”).
Per questo a straniarci, a dover riconsiderare il racconto del mondo, siamo noi.
Io sono stata qualcuno solo prima di nascere.
Prima della mia nascita camminavo già da otto mesi sulla fune a testa in giù. Io ero dentro mia madre, lei faceva la spaccata in alto sulla fune, e io guardavo giù o mi schiacciavo contro la corda.
Una volta lei non riusciva più a risollevarsi dalla spaccata e io sono quasi caduta fuori.
Poco dopo sono venuta al mondo.
Alla mia nascita ero bellissima, mia madre aveva paura che qualcuno mi portasse via e le mettesse un altro bambino nella culla.
Sono nata completamente calva.
Dopo il primo bagnetto, mia madre mi disegnò con la sua matita nera due folte sopracciglia.
Mia zia controllò che avessi tutte le dita e l’ostetrica mi fasciò insieme le gambe storte.Mio padre non c’era.
Mia madre mi battezzò col nome dell’ostetrica, perché era straniera.
E mia zia mi diede per secondo nome quello di una stella del cinema, perché potessi diventare famosa.
Ma non mi chiamo come Sophia Loren.
Quando, nella seconda parte del romanzo, le due sorelle vengono portate in un collegio in seguito alla crisi dei genitori, il tema dominante è quello del confronto tra sé e gli altri.
È in questo frangente – l’inserimento in una struttura normata, il tentativo di normalizzazione, la disciplina delle ore e dei compiti di tutt’altra natura rispetto al mondo del “prima” – che si matura la consapevolezza della diversità tra la percezione delle cose e la loro realtà.
Lo sconcerto è pari alla disperazione per la perdita del nucleo famigliare.
I bambini parlano del circo come dello zoo.
Gli vengono gli occhi lucidi oppure ridacchiano.
Pensano che tutti quelli del circo siano parenti, si amino, dormano nella stessa roulotte e mangino nello stesso piatto.
E poi si vive in mezzo alla natura, che bello! Non riescono proprio a immaginare che si debbano fare tutto il giorno le prove, e che si debba stare sempre attenti che gli altri non ti copino il numero, e che la sera si possa cadere dalla cupola e il giorno dopo essere morti.
Pensano che sia tutto uno scherzo.Se mia madre cade, non muore per scherzo.
Così quando, nella terza parte, la diade madre-figlia torna a comporsi, quella scheggia che si è incuneata nel tempo dell’infanzia, separando i giorni del circo da quelli del collegio, ha lasciato una cicatrice di amarezza.
Il tema, stavolta, è quello del sacrificio, ed è tutto al femminile.
Percorre queste pagine un irriducibile difetto di sguardo, di considerazione, di contesto: la vista degli adulti è miope, affaticata, rotta.
Quella della bambina, ad un tempo, fantastica e disincantata.
La pensione Madrid è una specie di ospizio per vecchi artisti. La maggioranza abita già da anni nelle proprie stanze, ballerini, prestigiatori, dame costose.
La direttrice è la vecchia e magra Doña Elvira, rifà lei stessa le stanze e sgattaiola tutto il giorno tra i corridoi carica di lenzuola bianche, origliando alle porte.
Una volta che l’ho sorpresa, mi ha detto: Controlla che nessuno muoia. Ma tu non preoccuparti di queste cose, arrivano sempre in tempo. E da sole.
Il ballerino Toni Gander va in giro tutto il giorno in vestaglia di seta e con una retina per i capelli. Non esce mai, perché ha una gamba paralizzata.
Nella piccola cucina comune prepara da mangiare per sé e per i suoi tre gatti, che possono servirsi dal suo piatto.
Nella stanza del prestigiatore svolazzano delle colombe.
Mia madre voleva comprarle per il suo numero di magia, ma sono già troppo vecchie.
Una ex dama tiene in camera un serpente.
È mio marito, dice.
Viene da pensare alla voce di Momò, il protagonista di La vita davanti a sé di Romain Gary: stessa compostezza, stessa asciuttezza, stesso toccante candore, identica affamata vitalità.
Sarà che questo impone, la fiaba che dà il titolo al romanzo: una fiaba inventata che non ha una risposta certa, raccontata dalla sorella nei momenti di crisi, rivivificata nella testa della protagonista, domanda ossessiva che esige mille possibili finali.
Perché il bambino cuoce nella polenta?
Perché esistono infiniti modi di fare del male?
Perché al bambino tocca il male? E Dio?
Brutale e feroce come solo sanno essere le disperazioni dei bambini, ma anche umano in modo alto, coraggioso, delicato, bizzarro e per niente scontato, Perché il bambino cuoce nella polenta è un gioiello.
Forse dai tempi de Il sorriso ai piedi della scala di Henry Miller non si vedeva tanta poesia concentrata in una storia di maschere e acrobazie umane sotto il tendone del mondo.
E non è un caso se Aglaja Veteranyi – di cui questa opera compensa un poco l’assenza dagli scaffali in lingua italiana – è autrice riconosciuta e tradotta in numerosi paesi. E che meriterebbe di rivivere, e a lungo, negli occhi di tanti lettori.
Lo smontaggio del tendone è uguale dappertutto, come un grande funerale, sempre di notte, dopo l’ultimo spettacolo in una città.
A volte, quando togliamo il recinto del circo, degli estranei si avvicinano alle nostre roulotte e schiacciano il naso contro i vetri della finestra.
Io mi sento come i pesci al mercato.
Come un corteo funebre, roulotte e gabbie vengono trainate a luci intermittenti verso la stazione e caricate sul treno.
Dentro di me tutto si scioglie, e il vento mi attraversa soffiando.