Ulderico Pesce, autore attore e regista, lancia accuse “politically uncorrect” e alla fine polemizza con tuttie tutto, ma la mediocrità della resa teatrale non gli dà respiro
Nel silenzio delle cose che non si possono dire, rimane scolpita la sentenza che il giudice Ferdinando Imposimato pronuncia davanti al fratello quindicenne di uno degli agenti della scorta di Aldo Moro: «Ciro, in Italia non si può sognare».
Eppure sognava suo fratello, Raffaele Iozzino, freddato durante il rapimento, sognava. Sognava Aldo Moro presidente. Sono devastanti i dieci minuti dello spettacolo Moro. I 55 giorni che cambiarono l’Italia in cui Ulderico Pesce inanella, a piena voce, gli indizi che dimostrano le responsabilità di Francesco Cossiga e di Giulio Andreotti, sostenuti o guidati dal governo americano, nel rapimento e nell’uccisione da parte delle Brigate Rosse del presidente della DC, il 9 maggio del 1978.
Notizie, quelle diffuse nel monologo, raccolte da Pesce grazie alla stretta collaborazione con il magistrato Imposimato, che come Ciro, il protagonista della storia, ha perso un fratello in quest’Italia in cui non si può sognare, per via delle indagini che ha condotto sul caso Moro, sulla camorra, sui terroristi.
È doloroso ascoltare questo resoconto, inchiodati alla poltrona, pensando alle generazioni di politici, intellettuali, genitori che si rammaricano, ogni giorno, della drammatica situazione politica ed economica del Paese, quando hanno accettato e continuano ad accettare il compromesso di non voler vedere la verità, purché tutto funzioni. Ma ci sono anche i restanti sessanta minuti, di spettacolo.
E se Ulderico Pesce, a ragione, chiede al pubblico -ai cittadini- di essere intransigenti e non accomodanti, lo spettatore chiede lo stesso all’attoreregistautore. Il contenuto non salva lo spettacolo, il cui valore civico è indiscutibile, ma quello artistico è suscettibile di numerose critiche, dalla recitazione trascurata al testo che, nonostante i toccanti spunti offerti dalle testimonianze dei parenti delle vittime, incespica in continuazione.
È anche per questo motivo che l’invettiva in cui Pesce si lancia, dopo gli applausi, contro la gestione del FUS, contro il monopolio del Piccolo Teatro e dell’Elfo e contro le dinamiche che animano i critici del premio Ubu non colpisce come dovrebbe. La denuncia è fondata, ma l’arma con cui combattere questa battaglia sono spettacoli di qualità: la mediocrità scredita.