Una vita passata a spiegare come ci sente a vivere in un altrove, distante e differente. Ci voleva , paradossalmente, il corona virus per sentirsi sulla stessa barca
Non sono mai riuscita a spiegare bene cosa voglia dire abitare in un altro paese rispetto a quello originale. Ogni volta che ci provo, mi sembra sempre che vengano fuori parole vuote, miste di autopietismo, di frasi fatte e di altre ovvietà, e quindi spesso lascio perdere.
Mi limito solo a dire che uno degli aspetti che più mi fa sentire lontana dai miei cari è la diversità del quotidiano: sono diversi i modi di relazionarsi agli altri, diverse le dinamiche lavorative, quelle matrimoniali, quelle genitoriali. Queste sono cose che sanno tutti. Ma la diversità la si trova anche nei piccoli gesti che si fanno tutti i giorni: fare il caffè con una macchinetta completamente diversa, prepararsi una colazione con cibi considerati ‘strani’ rispetto a quelli che si consumano in Italia; andare a fare una passeggiata in una zona per me ormai conosciuta senza poter condividere degli angoli, degli odori quasi inspiegabili alla mia famiglia milanese che non li conosce. Ascoltare la radio, così diversa da quella italiana, o guardare un telegiornale. Insomma, più mi soffermo su queste differenze e più distante mi sento dal mio mondo, dalla mia Milano.
Poi è arrivato il corona virus. Prima in Italia, soprattutto a Milano e ha cambiato radicalmente il tran tran delle persone: non si può uscire, si ha paura di stare con gli altri, andare al supermercato è diventato un incubo, con tutte quelle mascherine che nascondono la paura di ammalarsi. E poi, la difficoltà di dover condividere degli spazi con le stesse persone per giorni, settimane, mesi, oppure, come mia madre e mia sorella Serena, vivere in solitudine, nel silenzio delle quattro mura di casa, che rassicurano e isolano allo stesso tempo. E dopo qualche settimana è arrivato anche qui, questo corona virus e ha imposto anche qui le stesse regole, atroci, come in tutto il resto del mondo.
Ecco, dopo ventotto anni di vita americana, completamente diversa dalla vita milanese, il corona virus è riuscito, suo malgrado, a farci vivere esattamente allo stesso modo. Capisco perfettamente e condivido la paura di prendere l’ascensore, quella di svegliarsi una mattina con un po’ di febbre, quella di dover affrontare un altro giorno uguale identico a quello prima e a quello che verrà poi.
Io, le mie sorelle e mia mamma, ci videochiamiamo tutti i giorni, e invece che confrontare le nostre diverse realtà, condividiamo le paure e le sorprese del momento identico che stiamo vivendo. Ci facciamo coraggio a vicenda, facciamo a turno ad essere depresse o tranquille. Siamo tutti nella stessa barca, come ha giustamente detto papa Francesco:
“Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti”.
Una frase che sembra semplice, ma che è estremamente profonda, una descrizione perfetta di cosa vuol dire uguaglianza, fraternità, senso civico. Sembrava che parlasse un po’ a me e alla mia famiglia, come a dire che non esistono più confini, distanze, diversità. Siamo tutti uguali, forse per la prima volta nella nostra vita.
Lo so, non è molto una consolazione, soprattutto per chi non ha mai vissuto una vita intera lontani: sarebbe stato più bello poter condividere una situazione positiva, allegra. Il corona virus puzza di morte, di terrore, di auto isolamento, di noia e di incertezze. Eppure, forse proprio perché è così devastante, ci fa sentire semplicemente delle persone, senza bisogno di aggettivi.
Forse c’è del magico, a volte, anche nella tragedia.