Dal 2014 a oggi la gestione Pereira al Piermarini è stata caratterizzata dall’intenso sodalizio con Riccardo Chailly. Ma non solo. Ripercorriamone in video i momenti più interessanti ed emozionanti
Nella loro quarantena, tra un pianto e l’altro, i melomani di ogni specie e credo hanno trovato, con pochissime eccezioni, un’unica vera consolazione: lo streaming, per vedersi o – perché no – rivedersi spettacoli da tutto il mondo. Un po’ perché la nostalgia piace a tutti, ma ai dipendenti dall’opera piace di più, un po’ perché di tempo da riempire ne abbiamo avuto davvero parecchio, e per molti è ancora così. Per fortuna non manca la materia prima, visto che praticamente tutti i teatri, dal più blasonato al più sperduto (si racconta di una “Traviata” Currentzis-Bob Wilson dall’opera di Perm, Siberia), si sono ritrovati a condividere con milioni di persone i loro archivi digitali.
La Scala ovviamente non si è tirata indietro. Anzi, grazie a un provvidenziale accordo con la Rai, ha diffuso moltissimi titoli recenti di opera e balletto; tanto che ora, dei trenta spettacoli disponibili su Rai Play (qui l’elenco), ce ne sono circa una ventina dell’era di Alexander Pereira, passato a dirigere il Maggio Musicale Fiorentino. E chi abbia la pazienza di riguardarseli tutti insieme, potrebbe persino azzardare qualche conclusione sulla sua sovrintendenza, senza limitarsi a dire che è simpatico (come ha ampiamente dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, la sua conduzione del gala del Maggio della scorsa settimana, in accidentata diretta su Facebook).
Dunque si tratta di cinque stagioni. Anche se a dire il vero la prima, inaugurata con il bel Fidelio diretto da Daniel Barenboim, si deve ancora alla gestione di Stéphane Lissner. Ma poco cambia: un’idea ce la si può fare lo stesso; magari non esaustiva, ma significativa, tenuto conto che di questi tempi gli streaming dei teatri sono a tutti gli effetti la loro identità digitale. Ma andiamo con ordine.
Ovviamente il peso maggiore della programmazione spetta al direttore musicale, Riccardo Chailly, che si può ascoltare in ben dieci titoli d’opera, tutti quelli che ha diretto in questi anni. Cinque Puccini – tutti in primissima versione, o comunque in versione speciale –, due Verdi giovanili, un Giordano, un Donizetti e un Rossini. Dunque baricentro spostato verso il Novecento, come del resto conferma la Salome che Chailly stava provando a fine febbraio insieme a Damiano Michieletto, finalmente chiamato per una nuova produzione, salvo poi dover chiudere tutto per rimandare a tempi migliori.
Partiamo quindi dai Puccini: dalla Turandot molto stravinskiana che ha inaugurato l’Expo milanese, benedicendo la città a suon di gong e tam-tam, fino alla Tosca in pompa magna dell’ultimo 7 dicembre. In mezzo ci sono state una bellissima Fanciulla del West salvata all’ultimo da Robert Carsen (era annunciato Graham Vick, ma qualcosa è andato storto), una Madama Butterfly che peccava di prudenza e una Manon Lescaut semplicemente sbagliata, almeno per cast e regia.
Niente male insomma, almeno nei ricordi. Andando a verificarli via streaming, viene fuori che dal punto di vista musicale il percorso pucciniano si delinea in modo molto chiaro: non è certo un Puccini fatto di sentimentalismi e sdilinquimenti quello che interessa a Chailly, ma un Puccini dalle atmosfere lucide e analitiche, in qualche modo più miniaturista. Quella che è mancata è invece una riflessione teatrale più solida, a parte Turandot e Fanciulla, risolte con un linguaggio da cabaret berlinese che tende al brechtiano la prima (il bello spettacolo del compianto Nikolaus Lehnhoff) e con un efficace omaggio al cinema western la seconda. La Butterfly messa in scena da Alvis Hermanis conferma invece tutta la sua debolezza oleografica, mentre la sfarzosa Tosca di Davide Livermore, anche in video, rimane più cinematografica nelle intenzioni che nei fatti, risultando così un po’ generica. Quanto a Manon Lescaut, probabilmente non c’è ripresa che possa migliorarla.
Passando ai 7 dicembre verdiani, le cose funzionano meglio: sia per quanto riguarda la Giovanna d’Arco onirico-nevrotica della coppia Leiser e Caurier, con armature d’oro e cattedrali che spuntano dal sottopalco, sia per l’Attila distopico di Livermore, che rimescolando le carte tra oppressori e oppressi trova un punto di incontro tra Roma città aperta e Il portiere di notte. Divina Netrebko in un caso, altrettanto divino Abdrazakov nell’altro: si tratta probabilmente delle due inaugurazioni più convincenti di questi anni. Non che l’Andrea Chénier messo in scena da Mario Martone fosse andato male. Anzi, il video rende piuttosto bene l’effetto della scena rotante ideata da Margherita Palli. Anche se dal vivo il suo movimento era ovviamente più impressionante, quasi una presenza scenica della macchina della storia che procede inarrestabile.
Ma la vera sorpresa di questi streaming è senza dubbio Don Pasquale, di nuovo della ditta Livermore. Perché se dal vivo i cantanti sembravano annegare nelle scene “bombastiche” dello studio Giò Forma, in video tutto funziona a meraviglia. In particolare quel colpo di genio che è la sfilata tipo sorelle Fontana nel finale del prim’atto, dove i costumi di Gianluca Falaschi soddisferebbero anche i nostalgici di Piero Tosi. Perfetta la recitazione del cast, che in video si apprezza ancora di più, come del resto nella Gazza ladra della stagione precedente, dove però la regia di Gabriele Salvatores continua a dimostrare qualche goffaggine.
Per sintetizzare, si conferma che i fuochi d’artificio sono meno rischiosi dei ripensamenti teatrali, soprattutto per le recenti inaugurazioni di stagione. Chi si voglia togliere ogni dubbio può sempre fare il confronto con la tanto denigrata Traviata delle zucchine di Dmitri Tcherniakov che, a parte qualche momento sgangherato, non era poi così male. Potrebbe essere questa una delle ragioni dell’assidua presenza di Davide Livermore, il cui lavoro è stato davvero risolutivo nelle ultime stagioni, a partire dal bel Tamerlano messo in scena nel 2017. Del resto, i suoi spettacoli blockbuster sono un prodigio di tecnica e di effetti: target popolare e fotogenia dell’allestimento; sensibilità, quest’ultima, rivelatasi provvidenziale in questo periodo di divani forzati.
Esauriti i titoli Chailly, non mancano diversi altri spettacoli imperdibili. Si può scoprire Fin de partie, l’unica opera di Kurtág, il cui debutto alla Scala è forse il più grande successo di Pereira come direttore artistico. O ancora i due Mozart messi in scena da Frederic Wake-Walker con originale irriverenza, La finta giardiniera e Le nozze di Figaro, prima che si rivelasse una delusione nell’Ariadne auf Naxos di Strauss: ma non è stato un errore scommettere su di lui. Infine, per un ripasso di storia dell’opera c’è il mitico Ratto dal serraglio di Strehler. E anche se in video i cantanti non diventano delle silhouette come in teatro, lo spirito si percepisce comunque, almeno quanto la commovente complicità musicale di Zubin Mehta, uno dei protagonisti della Scala di Pereira, forse il più amato.
Una volta terminato il nostro frenetico zapping, oltre a riconoscere che le regie video di Patrizia Carmine non sono affatto male, possiamo azzardare un bilancio e chiederci quali siano le differenze tra la Scala che in queste settimane abbiamo rivisto in streaming e quella vissuta dal vivo negli ultimi anni.
La verità è che la Scala recente è stata in parte peggio e in parte meglio di quello che oggi si trova online. Peggio perché in troppe occasioni Pereira ha continuato a insistere su registi di livello quantomeno discutibile. Come direbbe il primo ministro, possiamo fare nomi e cognomi: Peter Stein, Matthias Hartmann, Grischa Asagaroff sono alcune delle presenze più o meno assidue le cui prove sono state sistematicamente deludenti. Per non parlare dei disastri del Pipistrello realizzato dalla coppia austriaca Cornelius Obonya e Carolin Pienkos e dell’Anna Bolena” di Marie-Louise Bischofberger, cui sono toccati forse i fischi più unanimi di questi anni. Per Sven-Eric Bechtolf il discorso è diverso: certo ha sbagliato Ernani, ma ha dato ottime prove in un repertorio forse a lui più congeniale, se si pensa al suo lavoro con l’Accademia, Hänsel und Gretel, o alla Elena egiziaca vista alla fine della scorsa stagione.
Ma la Scala di Pereira ha avuto anche dei successi artistici meno scontati di un trionfo di Tosca con Anna Netrebko. Ad esempio La cena delle beffe” di Giordano, geniale omaggio di Martone al cinema americano, o ancora la sua Chovanščina riposizionata tra Tarkovskij e Lars von Trier, con direzione di Valery Gergiev ispirata fino al sublime.
Un altro titolo su cui Pereira ha giustamente puntato è Die tote Stadt di Korngold, presentata per la prima volta a Milano con debutto di un soprano meraviglioso come Asmik Grigorian e ritorno di Graham Vick. Peccato non poterla rivedere in streaming, forse la Rai potrebbe scommettere anche su titoli meno di richiamo, quando ci sono simili locandine. A conti fatti va riconosciuto che nell’ultima fase della sua sovrintendenza Pereira ha ottenuto qualche risultato in più. Non è un caso che fosse riuscito a programmare una Salome con Chailly e Michieletto, sulla carta lo spettacolo più atteso di questa stagione purtroppo sospesa. Dovremmo ricordarcelo, quando finalmente andremo a vederla.
Immagine di copertina © Brescia e Amisano