Esce, ed è un evento, per La Nave di Teseo la nuova traduzione dell”Ulisse’ di Joyce di Mario Biondi con un apparato di note che si legge come un romanzo nel romanzo. Traduzione impegnativa com’è ovvio pensare? Molto di più, una montagna scalata sulla quale apporre anche il proprio nome
Statuario, pingue, Buck Mulligan avanzò dal capo della scala reggendo una ciotola di schiuma per barba su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, svolazzava lievemente alle sue spalle nell’aria mite del mattino. Resse alta la ciotola e intonò: «Introibo ad altare Dei.»
Evviva, ci siamo: finalmente è arrivata la versione definitiva dell’Ulisse di James Joyce (La Nave di Teseo, pagg. 1068, 25 euro: soldi ben spesi e il primo grande libro dopo il lockdown è di buon augurio). La fine di un lunghissimo viaggio cominciato negli anni ’70 del secolo detto breve: per Mario Biondi che l’ha tradotto e per me che allora cominciavo, più giovane di lui e fin troppo incline a sopravvalutare le mie forze, il corpo a corpo con quel testo arduo.
Interrompemmo subito. Lui, il Biondi, di tradurre («Il mio progetto… si era però dovuto arenare al primo centinaio di pagine o giù di lì. Anzi tutto, per campare dovevo tradurre quello che mi commissionavano gli editori, ma sopra tutto l’Ulysses era troppo difficile»). Io di leggere. Circolava allora la prima versione italiana, quella pionieristica di Giulio De Angelis, pubblicata da Mondadori nel 1960 con l’introduzione di Giorgio Melchiori e la consulenza di Carlo Izzo. Le note e il commento stavano in un volume separato grande la metà del testo originale, circa cinquecento pagine. Quel commento, che in seguito avrei letto, mi bloccò.
E sì che Melchiori era per me un nume beneaugurante. Quando avevo quindici, sedici anni mi portavo sempre dietro i Sonetti di Shakespeare tradotti da lui e da Alberto Rossi (Einaudi, 1965: nell’Ulisse c’è anche tanto Shakespeare, compresa una singolare teoria di Stephen Dedalus-Joyce sull’Amleto che scoprirete se ne avrete voglia). Una volta un cretino militante che in seguito sarebbe diventato maestro di yoga improvvisato con tanto di bastoncini d’incenso e più tardi, in un’altra metamorfosi, infatuato di Gheddafi e infagottato in una ridicola divisa dell’esercito libico, me li aveva strappati di mano scaraventandoli per terra e tacciandoli di frivolezza borghese. Avevo reagito, infuriato, prendendolo a cazzotti.
Confusamente, intuivo che i testi letterari non erano tranquille passeggiate in pianura (per meglio intendere i Sonetti, mi ero avventurato a leggere i Sette tipi di ambiguità di William Empson) e adoravo Joyce. Quello di Gente di Dublino con i suoi padri sbevazzoni e falliti e i suoi vitelloni, i suoi preti indegni e le sue ragazze impaurite, quello delle epifanie e degli amori morti che tornano a visitarti in una notte di neve. Quello delle poesie apparse allora in un volumetto degli Oscar («L’amor mio è vestita di luce / In mezzo ai meli /Dove i lieti venti più bramano /Di correre insieme.») Quello di Dedalus, sottotitolo Ritratto dell’artista da giovane, tradotto da Cesare Pavese (ricordate l’incipit? «Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva giù per la strada incontrò un ragazzino carino detto grembialino…».)
Stavo allora in Sardegna, a Sassari. Mi affascinavano, in Joyce, la comune insularità, l’odioamore per le nostre città centro del mondo e centro della paralisi, la ribellione – mista a una qualche fascinazione – al “mesto odore di religione” e alle asfissianti mitologie nazionalistiche. La fierezza vittimistica, o il vittimismo fiero, comune a sardi e irlandesi. Il loro essere perseguitati come l’ebreo Leopold Bloom protagonista dell’Ulisse: ma questo lo avrei capito più tardi, come avrei capito più tardi che la traccia irlandesi-ebrei era più produttiva da seguire, nel leggere l’opera mondo di Joyce, dei parallelismi con l’Odissea esplicitati, per fare rompere le corna a generazioni di critici, negli schemi che l’autore approntò per gli amici Carlo Linati e Stuart Gilbert (li trovate anche su Wikipedia, questi schemi: con il corrispondente omerico per me assai labile di ognuno dei diciotto episodi del romanzo: Telemaco, Nestore, Proteo, Calipso, Lotofagi, Ade, e così via).
Scopro, leggendo i Prolegomeni alla sua superba traduzione, che anche Mario Biondi era affascinato in gioventù da Joyce e da un altro comune amore, Dylan Thomas, che sarebbero stati numi tutelari del suo esordio di romanziere: «Nel frattempo (18 ottobre 1961: è scritto a matita e firmato sul libro) avevo comperato e divorato il Ritratto dell’artista da cucciolo di uno dei miei idoli poetici: Dylan Thomas. ‘Cucciolo’ io lo avrei tradotto ‘giovane cane’, anzi tutto perché secondo me rende molto meglio l’idea del grande abbaiare che Thomas fa in quei racconti, ma sopra tutto perché il titolo inglese di quel libro è Portrait of the Artist as a Young Dog e discende direttamente dal Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, che avevo già letto in originale. Eccolo lì il titolo del mio romanzino per fogli protocollo e penna Koh-i-noor: Il (ritratto dell’artista da) lupo bambino. A poco più di vent’anni si ha diritto a essere presuntuosi? In seguito si può semplicemente peggiorare».
Io l’Ulisse in seguito l’ho ripreso in mano più e più volte, per assaggi accompagnati dal commento, come quei turisti che non si fidano a entrare in un museo senza il baedeker, come quei “pedanti in cucina” cari a Julian Barnes che non si azzardano a mettersi ai fornelli se non hanno il ricettario sotto mano. L’avrei completato, una prima volta, come ci si prepara per un’interrogazione. E l’avrei riletto una seconda volta, fatto più saggio e accantonato il commentario, facendo tesoro di quel che Roland Barthes suggeriva per la Recherche, altra montagna scalata nel corso degli anni: leggere abbandonandosi, per il piacere di dimenticare e riscoprire, a una nuova lettura, particolari, squarci, storie alle quali non era prestata attenzione.
Mario Biondi ha seguito un percorso diverso: intanto è diventato scrittore, fra i nostri più affascinanti e fuori dal gregge. «Biondi ha qualcosa lui stesso dello scapigliato, dell’irregolare e del bizzarro, come scrittore, rispetto alle direttrici dominanti della moda e gli imperativi categorici della letteratura di oggi. Ha qualcosa del cane sciolto, senza collare, senza vaccinazioni regolari…» ha scritto di lui Carlo Sgorlon. Che dire infatti di uno scrittore “joyciano” che, come l’irlandese muoveva all’assalto del linguaggio, ha mosso alla conquista – e allo smontaggio colto, sapiente – dei generi, dal romanzo di formazione (Il lupo bambino) a quello civile (La sera del giorno), dal romanzo storico (Il cielo della mezzaluna) alla spy story (La civetta sul comò), dalla saga familiare (Gli occhi di una donna) al romanzo d’amore (Un amore innocente, Il crudele amore, Un giorno per tutta la vita), fino all’avventura bellico-finanziaria (Il destino di un uomo, Due bellissime signore)?
Scrivo queste note per amicizia, ed è forse il più bel modo di scrivere, fosse stato soltanto per dovere non mi sarei sentito all’altezza di commentare il suo Ulisse. Ma io Mario lo conosco da più di trent’anni, lui collaboratore illustre e io caposervizio di Amica: ho letto gran parte dei suoi libri, di alcuni ho anche scritto (Gli occhi di una donna, uscito nel 1985 per Longanesi e premiato con il Campiello, era uno dei libri preferiti di mia moglie Milena, e sono felice di poter scrivere di lui anche per ripagare questo debito di gratitudine), ci sentiamo regolarmente su Facebook, l’ultima volta qualche giorno per commentare una canzone di Tenco, Quello che conta, molto cara a entrambi.
E provo ammirazione per il combinato disposto che muove la sua attività di scrittore, viaggiatore e traduttore (e appassionato di opera lirica, e scrupoloso catalogatore di sé stesso e molto altro): meticolosità e chiarezza, gioco e sfida e furia. Con Ulisse è arrivato alla settantaduesima opera tradotta: io il grandissimo, l’immenso Isaac Bashevis Singer (sì, lo so che adesso va di moda il fratello Israel) l’ho scoperto grazie a lui, che ne ha tradotto ben diciassette opere. Così è accaduto per Rumore bianco di Don DeLillo, per Wole Soyinka e William Golding, per l’australiano Peter Carey e per Paul Auster, per Malamud e Updike e Bowles e per il primo Irving Yalom che ho letto (Le lacrime di Nietzsche). Conservo persino la prima edizione del suo David Guterson, quella pubblicata da una casa editrice che ebbe breve durata, Anabasi, con il titolo sbagliato (La neve cade su Cedars: era invece La neve cade sui cedri, avrebbe rimediato all’errore Longanesi).
Ho dimenticato di dire del poeta, che mosse i primi passi sotto il segno della Neoavanguardia e del Gruppo ’63, del viaggiatore instancabile che ha percorso la Turchia e molti Orienti e tutta la Via della Seta (e i suoi libri di viaggio sono di un fascino unico, di resoconti così belli in Italia se ne sono visti di rado), del dirigente editoriale che ha lavorato per Einaudi, Sansoni e per il Gruppo Mauri-Spagnol. Ma Ulisse di Joyce è qualcosa di più di una traduzione impegnativa. Qualcosa di più di una montagna scalata. È, se posso azzardare, un’opera di Joyce & Biondi.
Risponde al duplice requisito di rendere chiaro, leggibile, anche il libro più ostico. E di affermare: io, se lo avessi dovuto scrivere in italiano, lo avrei scritto così. È, insieme, traduzione e recita: come un grande attore che porta sul palcoscenico il suo cavallo di battaglia.
Traducendo Ulisse, Mario Biondi ha battagliato con il testo. Servendosi dell’edizione Oxford Classics, ma tenendo d’occhio anche la versione Odissey e quella elettronica del Progetto Gutenberg. Facendogli il controcanto con doviziose e minuziose e spesso spassose note (che meraviglia le note a piè di pagina e non più raccolte in fondo, testo nel testo). E infine rendendo il virtuosismo inglese, l’onomaturgia di Joyce, il suo smontare e rimontare i linguaggi le parlate i gerghi e le forme narrative in una festa verbale tutta italiana in cui esplodono i mortaretti e i fuochi d’artificio.
Così quel vagabondaggio per Dublino a cavallo di due giorni (dal mattino del 16 giugno 1904 alle prime ore del 17 giugno) del giovane e irrequieto Stephen e del più anziano Leopold, sensuale e tradito e traditore, padre e figlio virtuali assai improbabili ma tutti e due a diverso titolo alter ego di Joyce, è anche un vagabondaggio nelle epoche e nei pensieri, gli eresiarchi, la filosofia indiana e i rognoni e il panino al gorgonzola, la religione e la maternità, il bordello e la spiaggia, i giornali e i pub, le sale parto e le carrozze pubbliche.
Il capolavoro del modernismo, di quell’epoca in cui la letteratura, come la musica e le arti, cercò di superare l’Ottocento e di scoprire il nuovo mondo (ma L’uomo senza qualità, se posso dire, mi risulta noioso, e Gertrude Stein indigesta), in questa nuova smagliante traduzione ci si rivela in tutta la sua irruenza vitale, di capolavoro dell’eccesso e della fertilità creativa senza i quali neppure i più modesti azzardi dei testi rock o di un Bob Dylan sarebbero potuti arrivare.
Sentite la meraviglia del monologo di Molly Bloom, mi limito alle battute finali ma, come è noto, sono otto lunghi paragrafi senza un segno di punteggiatura, l’intero episodio 18 che nella traduzione di Biondi va dalla pagina 1001 alla 1067: «…e gli splendidi tramonti e le piante di fico nei giardini dellAlameda sì e tutte quelle bizzarre stradine e le case rosa azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e gerani e cactus e Gibilterra da ragazza dove ero un Fior della montagna sì quando mi mettevo la rosa tra i capelli come facevano le ragazze andaluse o me ne metterò una rossa sì e come mi ha baciato lui sotto le mura moresche così ho pensato oh bè va bene lui come un altro e poi gli ho fatto segno con gli occhi di chiedermelo di nuovo sì e allora lui mi ha chiesto se volevo sì dì di sì mio fior della montagna e io prima lò abbracciato sì e me lo son tirato addosso in modo da fargli sentire i miei seni tutti un profumo sì e il suo cuore sembrava impazzito e sì ho detto sì voglio Sì.»
Mario Biondi si diletta anche con l’oroscopo e il lotto, cose che vengono buone per scrivere note che si leggono come un romanzo nel romanzo, come la 598 alle pagine 877-878, dove decifra il 16 tatuato sul petto del marinaio. Io, mentre concludevo, sono riandato a sbirciare il suo splendido sito che merita più e più visite, ne ho ricavato il mio pronostico e i numeri del Lotto (4, 47, 65, 81, 84) e del Superenalotto (16, 25, 44, 46, 48, 71). Rileggo l’articolo, lo spedisco a Cultweek e me li vado a giocare. Se vinco facciamo a mezzo, intanto grazie.