Alla Scala, Robert Wilson e Rinaldo Alessandrini mettono in scena L’Incoronazione di Poppea, dramma sul trionfo dell’amore ingiusto
In una posa lasciva e con un sorriso beffardo parzialmente in ombra, nel 1604 Caravaggio dipinge l’Amore come un putto mordace e perverso, ai cui piedi sono posati gli strumenti tipici della musica barocca. Amor vincit omnia sarebbe un frontespizio più che appropriato per l’ingiusta, cinica e immorale passione degli spietati Nerone e Poppea, trionfante nell’ultima opera di Claudio Monteverdi. L’incoronazione di Poppea (1643) trascina giù dall’Olimpo degli dei e dalle chimere della mitologia i suoi protagonisti, uomini realmente vissuti, vittime di passioni che la realtà, più che il mito, conosce e soffre in tutte le epoche.
La cornice allegorica nella quale si era svolta la vicenda di Orfeo (1607) sopravvive in Poppea in un prologo in cui Amore «vince d’antichità il tempo e ogn’altro Dio», doma la Fortuna e insegna la Virtù. Eppure l’amore, in quest’opera che recupera il soggetto dalla cruda realtà storica mettendo dunque in scena un dramma umano (e non divino), è la passione irragionevole di chi detiene incontrastato il potere: quando «la forza alla ragion contrasta», la legge viene mutata a proprio piacimento e l’imperatore può uccidere Seneca, araldo della ragione, ripudiare senza ostacoli la moglie Ottavia e condannare Ottone, il compagno della sua amata, per far di Poppea l’imperatrice di Roma.
Col trionfo dell’amore ingiusto, si chiude il sipario del Teatro alla Scala che domenica 1 febbraio ha applaudito il successo dell’Incoronazione di Poppea, una coproduzione con l’Opéra National di Parigi, diretta da Rinaldo Alessandrini, star della musica barocca, con la regia di Robert Wilson, che con questo capitolo chiude la trilogia monteverdiana, dopo l’Orfeo (2009) e Il ritorno di Ulisse in patria (2011).
I personaggi sfogano le proprie passioni all’interno di una scena essenziale, dove pochi elementi bastano a suggerire i luoghi dell’ambientazione: qualche colonna, pochi alberi, un muro, un capitello corinzio sono sufficienti per fare una domus, un giardino, un palazzo, posti su un palco in cui i vettori degli elementi scenici costruiscono geometrie precise e calibrate.
La luce, di cui Wilson è sapiente architetto, contribuisce a questo impianto euclideo, si adegua ai mutamenti della drammaturgia e suggerisce alla vista i toni della vicenda: un occhio di bue insegue i visi degli attori, la cui mimica facciale, votata all’eccesso, accompagnata dal canto che tende alla declamazione – più affine al teatro di prosa che al melodramma – fa da padrona, vero fuoco prospettico della messa in scena.
È esattamente sul contrasto tra il rigore gotico e minimalista della scenografia e della luce e il manierismo del gesto e della voce degli attori che si concentra il lavoro del regista. Per Wilson è necessario che l’occhio e l’orecchio non siano distratti da architetture bizantine e artificiose, che il testo e la musica, vigorosi e sanguigni, vorrebbero incitare a costruire. Tuttavia, non cede a questa tentazione lo stile inflessibile di Wilson che cattura i furori del barocco monteverdiano in una sorta di perenne tableau vivant di caravaggesca memoria.
La musica, allora, emerge incontrastata: il basso continuo, tutt’altro che sommesso, domina la drammaturgia dell’opera e la direzione di Alessandrini – che ha revisionato personalmente i due manoscritti che ci consegnano l’opera di Monteverdi – punteggia con accenti decisi, nient’affatto misurati, le passioni dei personaggi. I dolori dei grandi sconfitti, Seneca e Ottavia (rispettivamente gli ottimi Andra Concetti e Monica Bacelli), nei numeri con cui escono definitivamente di scena, si manifestano grazie al vigore con cui l’orchestra esalta il loro dramma e grazie alla flessibilità e al lirismo della loro vocalità.
Seneca canta il proprio suicidio in un contesto in cui scompaiono le luci, in cui gli attori vestono di nero e la cui voce di basso suggerisce lo stoicismo, l’inflessibilità e la devozione alla ragione che non ammette patetismi di sorta. Il virtuosismo del canto è sottoposto, dunque, alla teatralità della declamazione – il “recitar cantando” che inaugura la fortuna del melodramma – e sulle inflessioni coloristiche delle voci si gioca la caratterizzazione dei personaggi: i ruoli comici, affidati come da tradizione ai più umili, ammorbidiscono il dramma dei nobili e le splendide prove attoriali, smisurate ed eccentriche, di Arnalta e della nutrice – rispettivamente Adriana di Paola e Giuseppe di Vittorio – sottolineano con sarcasmo il cinismo, l’ambizione e l’egocentrismo delle classi inferiori. Drusilla (Maria Celeng), soprano agile – forse la vocalità più in linea con la tradizione seicentesca – comunica con efficacia il suo amore per Ottone (Sara Mingardo), incisivo contralto en travesti, al quale è concesso il pallido conforto di un esilio in compagnia della sua nuova amata.
Sarà la storia successiva, di cui l’opera però non vuole recar traccia, a mitigare i successi di Nerone e Poppea: il celeberrimo duetto trionfante, “Pur ti miro, pur ti godo”, in cui si scatenano le doti dei due cantanti (Leonardi Cortellazzi e Miah Persson), sotto l’egida muta di Amore – irragionevole passione più che cortese sentimento – chiude il primo grande melodramma della storia sull’intreccio di amore e potere. Wilson e Alessandrini firmano un’opera immensa con grande acclamazione da parte del pubblico e ci svelano l’attualità di un caposaldo della cultura dell’Occidente.