Impadronirsi di una vita, plasmarla, eradicarla, chiuderla dentro un perimetro limitato e controllato. L’orrore della violenza mascherato da amore: questo il mondo a due di Rino e Ada, il luogo della malattia del possesso protagonista del romanzo di Anja Trevisan, “Ada brucia”.
Viviamo nell’era della scoperta dell’amore. Inutili sono stati i secoli di domande, di tentativi, di perplessità, di definizioni, perché l’amore come ce l’hanno insegnato, come ce l’hanno raccontato, è qualcosa di ideale, di finto, di inesistente. Spesso, infatti, l’amore che nasce dalle viscere, quello sparo di inizio che annebbia la vista e che cresce fino a pietrificarsi all’interno, non è quello che ci è stato mostrato nei film o nei libri, non eleva, non riempie, non soddisfa, non rende per sempre felici, è qualcosa che degrada, che fa impazzire, che consuma l’attesa e che, anche, diventa ossessione e passione.
L’amore a senso unico, un uomo e una donna, lui deve essere più grande, lei più piccola, matrimoni figli vecchiaia nipoti. Poi si è cominciato con il superare i confini, con il provare a immaginare un amore tra due uomini e tra due donne, poi tra più persone, non più due, sfondando quell’interrogativo: cos’è amore e cosa non è amore?
Ada brucia di Anja Trevisan (pubblicato da Effequ) è un romanzo la cui chiave di lettura è individuabile nel sottotitolo: “Storia di un amore minuscolo”.
L’amore non si sa mai da dove provenga: Rino, infatti, si innamora di una bambina di nove mesi.
Il cuore di Rino sa che assolutamente no. A tutto c’è un motivo. Lei lo guardava, ha teso la mano verso di lui, l’ha stretta in un piccolo pugno come a dirgli di prenderla. Ecco, è questo che deve sapere, gli deve bastare per prendere una decisione. Senza di lei che vita è?
Il cervello di Rino non lo sa. Il suo cervello ora funziona a intermittenza, pensa una cosa, poi un’altra, poi torna a quella di prima. E la cosa giusta non si sa qual è. Forse è starle distante, non frapporsi tra lei e la vita. Però l’amore è giusto.
Eccoli i sintomi dell’amore: lo sguardo, il dubbio, il desiderio di possesso. Finché c’è l’amore è tutto giustificato, “l’ho fatto per amore” è lo stereotipo con cui si giustificano tutti i rimpianti e gli errori commessi nell’arco di una vita intera. Rino la rapisce, Beatrice, le cambia nome, le insegna a parlare e si prende cura di lei pensando che sia l’unico mondo possibile, quello. Beatrice diventa Ada e cresce, con la convinzione che senza scarpe nel mondo non ci si possa andare, che l’erba, al contatto coi piedi nudi, provocherebbe una combustione immediata capace di mettere fine alle vite di tutti. Gli uomini sono cattivi, tutti vogliono impadronirsi della sua casa: lei si rifugia in cantina, si nasconde da un mondo che non conosce se non tramite le immagini che nella televisione si sovrappongono e creano un’alternativa irreale.
Rino è sveglio, la prende per un polso e la avvicina; ogni mattina, per non doversi alzare subito, le fa le coccole, così Ada ha voglia di rimanere ancora un po’ a letto, e la tiene stretta tra le braccia, le bacia i capelli, e la accarezza dal collo ai piedi. E ogni mattina Ada si sistema muovendo il corpo avanti e indietro finché non trova l’incastro giusto con quello di lui, cioè quando la schiena ricopre buona parte del suo torace e il sedere è qualche centimetro sopra al suo bacino.
È tutto troppo bello, troppo perfetto. Rino sembra avere ogni tanto dei ripensamenti, dei pensieri che lo connettono con la realtà vera, quella da cui lui vuole fuggire rinchiudendosi in casa con la bambina. Eppure Rino è capace di sospendere il giudizio, di galleggiare nell’incapacità di rispondersi alle sue domande e di dirsi che sì, in fondo va bene così, in fondo abbiamo tutti degli scompensi mentali, il suo è solo uno di quelli. Anche Ada sembra, in fondo, crescere bene. È una bambina che, tutto sommato, riesce a svilupparsi senza troppi problemi, guarda la televisione, disegna, e si concede a Rino con la tranquillità di chi è consapevole che quella è la sua unica realtà conosciuta.
C’è il tatto, il toccarsi, il conoscersi alla perfezione, c’è il sesso ed un desiderio troppo carnale di lui contro un abbandono privo di significato di lei.
L’incontro con un ragazzo di nome Max provoca la distruzione della realtà creata finora da Rino per Ada: il terreno non brucia, le persone non sono tutte cattive, non si fa sesso prima che questo non diventi impulso. Ada scappa, corre sulla bicicletta, verso il mondo vero, quello in cui si sentirà inadeguata, in cui non riuscirà a creare dei rapporti di valore se non con il fratello, un mondo da cui tenterà di scappare con la ricerca spasmodica di Rino.
È una sensazione strana quella che si sta facendo largo. È all’altezza dello stomaco, come se si fosse diviso a metà e poi riunito male, in un modo imprevisto, che non funziona. Sul primo gradino della scala della cantina, con la luce che arriva dal contorno della porta e la chiave girata nella serratura, Ada tiene le mani sotto alle piante dei piedi e la fronte sulle ginocchia. Ha cominciato di nuovo a sudare, nel tragitto dalla finestra a qui, ma è stata questione di secondi.
Nonostante il sottotitolo, Ada brucia non è una storia d’amore. È vero, ne ha tutte le caratteristiche ma ce n’è una che annulla tutto e che relega la vicenda ad un rapporto malato, senza possibilità di sopravvivenza. Se c’è una certezza, infatti, nell’incontro e nello scontro con l’altro è che l’amore non è possesso. Rino è un criminale, ha rubato una vita, l’ha allontanata dal suo spontaneo corso e decorso, ne ha ritagliato i bordi per farla incastrare alla perfezione in una forma decisa da lui, l’unico despota del suo mondo. Rino lo ripete più volte all’interno del libro: Beatrice non c’è più. E quale tipo di amore può nascere da una violenza? Se si assume che la violenza sia tale solo in quanto fisica allora Rino è un angelo, non ha mai picchiato Ada, l’ha protetta sempre. Ma con che termine si potrebbe definire il modellare una vita a proprio piacimento senza che questa abbia gli strumenti per comprendere, l’abuso di un corpo, di un taglio di capelli, di un paio di piedi? Non si sa, ma di certo non amore.
I sassi non li fanno cadere. Gli alberi sfrecciano vicino a loro come missili e ogni tanto sembra di andarci addossi, di poter perdere l’equilibrio, ma poi non succede.