Dalla vicenda, storia antica con ricorrenze di protagonisti, della sepoltura dei feti, a Vanessa Incontrada che posa nuda su Vanity Fair sotto il titolo ‘Nessuno mi può giudicare’ . Ci si continua a interrogare sull’eterna questione del corpo della donne e di come si agisce libertà e autodeterminazione. Quella di Malfalda, per esempio, nei giorni dell’addio a Quino, suo geniale inventore
Il corpo delle donne. Sempre e ancora. La loro libertà, l’eterna questione dell’autodeterminazione, ma anche lo sguardo sociale, e lo sguardo su se stesse e sul proprio posto nel mondo. Tanta roba, insomma. E tanta ne è successa in questa settimana di fine settembre in cui le cronache si sono nuovamente riempite di una storia antica, tenuta sottotraccia da anni, e che oggi è riesplosa per la denuncia di Marta Loi, una giovane donna romana (qui il suo racconto) che, mesi dopo un aborto terapeutico all’ospedale San Camillo, ha scoperto che il bambino era stato sepolto a sua insaputa e con il suo nome in un’area apposita del cimitero Flaminio, piena di croci con il nome delle donne che hanno avuto una interruzione di gravidanza. La sua denuncia, un post su Facebook in cui dice della sua rabbia e della sua angoscia, ha innescato un meccanismo a catena: altre donne hanno scoperto di essere nella stessa situazione, il garante della Privacy ha aperto un’inchiesta, l’avvocata bolognese Cathy La Torre ha messo a disposizione una mail (tutelaliberascelta@gmail.com) per offrire informazioni e patrocinio legale gratuito. Storia antica si diceva – il regolamento della polizia mortuaria risale al 1990 ma prevede che le sepolture di feti oltre la 28settimana abbiano un codice alfanumerico di cui sono a conoscenza solo i genitori – e storia che in realtà negli anni, in virtù delle pressioni di associazioni cattoliche e antiabortiste, ha dato vita in diverse parti di Italia ai cosiddetti ‘cimiteri degli angeli’. Jennifer Guerra è la giornalista di The Vision che li ha mappati, ne ha trovati 50 e soprattutto al Nord, dato sottostimato dice e, in questo articolo scritto per il sito di giornaliste Giulia , racconta l’esito della sua inchiesta e tutti gli interrogativi – legali, etici, psicologici – che questa pratica pone. E salta fuori dal suo racconto il nome che, a chi scrive, ha evocato un importante snodo della questione della sepoltura dei feti: correva l’anno 2007 e la giunta lombarda di Roberto Formigoni varò un regolamento che forzava ulteriormente la mano e ipotizzava la sepoltura dei feti anche sotto la 20ma settimana che per legge avrebbero dovuto essere smaltiti con procedura ospedaliera, somministrando un apposito modulo alla donna in procinto di interrompere la gravidanza. Chiarissimo l’intento di stigma e colpevolizzazione di chi legittimamente faceva ricorso ad una legge dello stato, la 194, che però era sfuggito anche ai consiglieri del Pd e della sinistra che in consiglio lo approvarono: fummo noi, le donne di Usciamo dal Silenzio, il movimento che era nato l’anno prima proprio contro un ennesimo attacco a quella legge, a mobilitarci insieme a tante altre come Osadonna, a convocare un’animata assemblea con i consiglieri regionali, insomma a non mollare il colpo. Tra le altre Lea Melandri ne scrisse sull’ormai da anni defunto quotidiano Liberazione: ‘Il caso Lombardia ha antecedenti in altre regioni. A Potenza, l’azienda ospedaliera San Carlo ha sottoscritto una convenzione con l’associazione “Difendiamo la vita con Maria” in base alla quale, previo consenso da parte dei genitori, sarà l’associazione stessa incaricata del “seppellimento” dei feti “di presunta età di gestazione inferiore alle 20 settimane”. Il “movimento per la vita”, nella difficoltà ad attaccare direttamente la Legge 194, che rischierebbe di essere un’azione impopolare, sta ripiegando su un accerchiamento i cui effetti sono facilmente prevedibili, perché improntati alla violenza che le donne subiscono da sempre, a cui molte si sono rassegnate, e a cui altre riescono a dare ancora coperture ideali. Dietro il paravento della “difesa del diritto del nascituro” si tenta l’ingresso nei consultori, nei reparti ginecologici degli ospedali, per scoraggiare l’interruzione di gravidanza; in nome della “pietà” per la creatura non nata, davanti alla donna che già porta il peso di una gravidanza non voluta, di una sessualità di cui è lei solo a portare le conseguenze, si agita lo spettro della sepoltura – che vuol dire la morte di una persona, di cui è lei responsabile – o, peggio ancora, il tormento duraturo di un rifiuto che condannerà il feto-bambino alla vergogna della “fossa comune”, di tragica memoria“.
Anche se il regolamento lombardo venne anni dopo abolito, è esattamente quello che è successo negli anni successivi, con leggi regionali o disposizioni comunali o rendendo di fatto sempre più complicato per le donne il ricorso alla 194, in virtù degli altissimi tassi di obiezione di coscienza, spesso di comodo, di ginecologi ospedalieri. E dal resoconto di Melandri ecco il nome: ‘Difendiamo la vita con Maria’ è la stessa associazione rintracciata da Jennifer Guerra nella sua inchiesta e che dunque conduce questa attività da anni e anni: “Alcune cliniche hanno però stipulato una convenzione con un’associazione di stampo religioso, “Difendere la vita con Maria”, che si occupa di seppellire e tenere una cerimonia qualora i genitori non vogliano occuparsene personalmente (si parla sempre di feti sotto le 20 settimane, ndr) “Vogliano” è una parola grossa: raramente una donna è a conoscenza di cosa accadrà al feto, fermo restando che, firmando il consenso informato, dovrebbe essere aggiornata anche su questo.I soci di “Difendere la vita con Maria” ci tengono a specificare che si tratta di un’attività legale, anche se rimangono dubbi sulla divulgazione dei dati sensibili da parte delle cliniche e, più in generale, a quale titolo un’associazione di volontariato possa maneggiare quelli che in ospedale sarebbero trattati come “rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo”.
Dal Post, altri particolari: “Una delle più note associazioni di questo settore è “Difendere la vita con Maria” (Advm): è attiva in 19 regioni, ha almeno 60 sedi locali e grazie alle convenzioni stipulate con le aziende ospedaliere e le Asl (i dati sono del 2018) dice di aver dato sepoltura «a più di 200mila bambini non nati». Con questa associazione collabora, tra gli altri, anche l’istituto pediatrico Gaslini di Genova, il cui direttore generale Paolo Petrali, nel 2018 ad Avvenire, diceva: «Il nostro istituto (…) ha nelle sue corde fondative la presa in carico e la cura del bambino e della sua famiglia, di ogni etnia, razza, età e condizione sociale, e in ogni fase della vita. E poiché la vita inizia dal concepimento, pensiamo che prendersene cura vuol dire anche adottare comportamenti giusti e appropriati, con un percorso di presa in carico con cui si dà dignità e rispetto a una persona che non c’è più» Nello stesso articolo Giuseppe Popolo, direttore responsabile di neonatologia degli Ospedali riuniti di Foggia, diceva: «Grazie alla convenzione con l’Advm portiamo a sepoltura tutti i feti che vengono abortiti spontaneamente oppure per problemi medici. Con l’aborto nasce nella donna un vuoto enorme, che porta spesso a depressione. Per superare il lutto, ogni mamma ha bisogno di piangere sulla tomba del proprio figlio». La storia di Marta Loi è stata resa pubblica nella giornata internazionale per l’accesso a un aborto libero e sicuro. L’opposizione alla legge 194, al diritto e alla libertà di autodeterminazione delle donne si manifesta in molti modi, come sostengono da decenni i movimenti femministi: attraverso l’obiezione di coscienza negli ospedali, l’obiezione di coscienza nei consultori e nelle farmacie (che di fatto viene praticata), attraverso il finanziamento pubblico regionale a strutture che si fanno chiamare consultori ma che non lo sono, attraverso una costante, ben organizzata e capillare presenza delle reti anti-scelta che hanno spesso molti legami politici, attraverso ingerenze confessionali nelle quali, in alcuni casi, la politica ha parte attiva. E attraverso narrazioni e pratiche (spesso avvallate dalle istituzioni, come abbiamo visto) che colpevolizzano e criminalizzano le donne“.
La storia continuerà, si ipotizza una class action delle donne, la procura sta valutando l’apertura di un’inchiesta, il caso arriva in parlamento e negli enti locali: restano le immagini di quelle croci con nomi di donne che le cronache raccontano in un contesto di degrado, nel fango, vicino ai cassonetti, simboli non scelti, non voluti che rispondono ad una chiara operazione ideologica sul corpo e la scelta delle donne: “C’era una tomba a mio nome, senza il mio consenso e senza che io ne fossi a conoscenza”. racconta Francesca al Corriere della Sera . “Anche lei, come Marta tre giorni fa, ha subìto un aborto terapeutico in un ospedale romano ma non avrebbe dato l’assenso alla sepoltura del feto, chiedendo mesi dopo l’intervento che fine avesse fatto. “Mi hanno risposto “non ne sappiamo niente” , continua Francesca. Ora vedere il mio nome su quella brutta croce gelida di ferro in quell’immenso prato brullo è stata una pugnalata“.
Vanessa & Mafalda. Decisamente più ‘leggera’ ma con risvolti interessanti la vicenda che ha per protagonista Vanessa Incontrada, bella e simpatica attrice, a lungo bullizzata in rete per qualche chilo in più post gravidanza che compare nuda e splendida sulla copertina di Vanity Fair sotto il titolo ‘Nessuno mi può giudicare‘. Messaggio di body positivity spiega il settimanale che pubblica un video dell’attrice e ne fa una campagna contro il body shaming, per la celebrazione di una ‘nuova bellezza’. La discussione, com’è ovvio si scalda, attraversa i social e i media e tocca soprattutto le donne, a testimonianza di quanto lo sguardo sociale e maschile continuino ad avere una capacità pervasiva profonda e dirompente, non di rado agita da donne ‘contro’ altre donne. Body shaming apunto, e non lo fanno solo i maschi.
A chi scrive l’operazione Incontrada sembra restare tutta dentro il codice della bellezza ‘come si deve’: codice della moda, dello showbiz, del marketing e per estensione della società. Nulla di nuovo: codice di appetibilità in una logica patriarcale e che peraltro adesso si è esteso anche ai giovani uomini. Un’operazione forse più inclusiva ( e questo è un bene per chi ha letto in quella copertina una possibilità maggiore di accettazione di sé, ma viene da dire che se il parametro è la bellezza di Incontrada, beh resta abbastanza irrangiungibile) ma nulla di nuovo sotto il cielo: di modelle curvy sono piene da anni le sfilate e rapidamente il marketing divora e ingloba quando non crea ogni diversità, anche quella più lontana dagli stilemi come nel caso della modella armena Armine scelta da Gucci. Il problema, viene da dire, è il cielo: ovvero l’orizzonte chiuso della dittatura dell’immagine che al tempo dei social costringe e immobilizza più che mai e rende complicata una maggiore libertà di sé: e via, le ragazzine, di occhioni, boccucce, sguardi che si vogliono seduttivi, capelli lisci e bikini. Eguali, carucce, indistinguibili. Non tutte certo, e ce ne sono di ragazze, di giovani e non giovani, di femministe e studiose che stanno continuando a lavorare su temi che sembrano eterni e inscalfibili e che pesano sulla vita e sui ruoli delle donne, ma mentre muore Quino, geniale inventore di Mafalda, come non pensare alle ‘fumette’ del nostro Pantheon, a quanto ci hanno detto e fatto pensare, facendoci ridere, a quanto sono state modelle, loro sì, di pensiero critico e autocritico, aperto, intelligente, ironico, su di sé e il mondo. Da Valentina Mela verde, letta in anni ancora bambini, a Mafalda, alla pungente Lucy, alle donne ( Agrippina, Cellulite, la serie dei Frustrati) di Claire Brétecher , mancata anche lei quest’anno. Non ce ne voglia Vanessa ma davanti alla sua ‘educatissima’ bellezza in copertina che poco sposta e molto conferma in tema di uso del corpo delle donne ci viene da dire Viva oggi e sempre Mafalda che dice che le cose veramente belle della vita sono quelle che spettinano.
Foto di apertura: Alexander Krivitskiy on Unsplash