La 38enne Manele Labidsi Labbé racconta nel suo film d’esordio la storia di una ragazza, cui dà volto la bella e brava Golshifteh Farahani, che vuol fare la psicanalista. Esercita sulla terrazza della sua casa di Tunisi, munita di idee e ritratti del padre dell’analisi, e lì vedrà sfilare nevrosi e prototipi della società d’oggi. A tutti dà ascolto e consiglio, non senza ostacoli e problemi di cultura e burocrazia
Selma, la protagonista di Un divano a Tunisi, ha trentacinque anni e un sogno: aprire uno studio per esercitare la psicoanalisi nel posto in cui è nata, ma da cui la sua famiglia ha dovuto fuggire. E così un bel giorno lascia Parigi, la città dove è cresciuta, dove ha studiato, per trasferirsi alla periferia di Tunisi e sistemare sulla terrazza della casa che era stata dei suoi genitori un bel divano comodo dove accogliere i pazienti. Che arriveranno a frotte, dopo un breve momento di comprensibile diffidenza. Il carosello di facce, storie e nevrosi che scorrono nello studio di Selma, e davanti ai nostri occhi di spettatori, sono la parte migliore di questo film diretto da Manele Labidi Labbé, trentottenne regista e sceneggiatrice francese di origini tunisine, qui al suo primo lungometraggio.
Ecco così apparire lo stralunato panettiere ossessionato dal desiderio di indossare abiti femminili e l’esuberante proprietaria di un grande salone di bellezza, apparentemente realizzata ma in realtà piena di ansie e insoddisfazioni, legate soprattutto alla presenza di una madre piuttosto ingombrante. Poi ancora un imam che ha perso la fede, proprio nel momento in cui veniva abbandonato dalla moglie, e non sa decidere quale dei due eventi sia il più grave. E infine l’adolescente ribelle che sogna soltanto di andarsene dalla Tunisia, e pur di riuscirci è pronta a tutto, anche a sposare un ragazzo dichiaratamente gay.
Tutti chiedono a Selma attenzione e sostegno, tutti vorrebbero occupare il centro della scena, compreso un giovane poliziotto fin troppo zelante, o forse un po’ innamorato, che pretende dalla protagonista il rispetto assoluto delle regole in un paese dove leggi e regolamenti sembrano tutt’altro che dotati di forza assoluta. Così lo Stato tunisino finisce per avere il volto dell’impiegata a cui Selma si rivolge per ottenere il permesso di esercitare la sua professione: una donna tanto gentile quanto indolente, e di fatto priva di qualunque utilità. Ma per fortuna su tutto vigila il grande maestro, Sigmund Freud in persona, che in una bella sequenza onirica interviene direttamente a salvare la protagonista rimasta in panne con l’auto, ma soprattutto a corto di energia e spirito di intraprendenza.
Un soggetto molto interessante per un film dalla trama un po’ esile, il cui risultato finale appare forse inferiore alle ambizioni. Del resto, psicanalizzare un paese intero attraverso una manciata di personaggi esemplari non è certo impresa facile. La protagonista, l’iraniana Golshifteh Farahani, è però talmente brava da riuscire a illuminare anche le scene meno trascinanti. Nel complesso, ciò che rimane è una commedia in bilico tra sorrisi e malinconia, capace di disegnare con un certo garbo le tante piccole storie dei personaggi sullo sfondo della storia recente della Tunisia, tra rivoluzioni e restaurazioni, non ignorando il peso della tradizione religiosa ma dando conto soprattutto del bisogno di andare avanti e ricostruire una società, sotto il segno di una maggiore consapevolezza e libertà.
Un divano a Tunisi di Manele Labidi Labbé, con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura, Aïsha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacubi, Ramla Ayari, Moncef Anjegui