Progetto coraggioso, cast strepitoso (da Keaton a Norton), regia virtuosistica. Eppure si finisce sovrastati da tanta pienezza. Che è anche un po’ freddina
Nove nomination e tanti attori perfetti
Bisogna saper accettare i propri limiti. È quello che sto cercando di fare da quando ho visto Birdman, il film di Alejandro G. Inarritu con Michael Keaton, Edward Norton, Emma Stone e Naomi Watts, fra gli altri. Dunque confesso di essere rimasta un po’ freddina di fronte a una pellicola che tutti stanno inneggiando, in modo entusiastico.
Il film ha fatto il botto: 9 nomination agli Oscar 2015, fra cui miglior film, regia, attore protagonista, attrice e attore non protagonista e sceneggiatura originale. Nell’attesa, ha vinto il premio per il miglior film ai Sag Awards, quelli assegnati dall’associazione degli attori americani.
La storia si snoda tutta a Broadway, dentro il St. James Theater sulla West 44th Street, dove Riggan Thomson, interpretato da Michael Keaton, è un attore di Hollywood famoso per la sua interpretazione di un supereroe del cinema anni ’90, il Birdman del titolo. Ormai anziano, Thomson cerca di guadagnarsi una nuova rispettabilità sul palcoscenico e punta tutto, anche i suoi soldi, su un ritorno col botto, adattando, dirigendo e interpretando una complicata pièce tratta da Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver.
Anteprima dopo anteprima, le cose si complicano fin quasi al disastro, fra primi attori narcisisti e stronzi (Norton), protagoniste insicure (Naomi Watts), figlie ex tossiche (Emma Stone), amanti deluse (Andrea Risebourough), produttori preoccupati (Zach Galifianakis), ex mogli simpatetiche (Amy Ryan). A tutto questo si aggiungono le bizzarre abitudini di Riggan: cose come spostare gli oggetti col pensiero e intrattenere un dialogo immaginario con Birdman, il supereroe che ha interpretato per tanti anni, che cerca di dissuaderlo dal progetto per farlo tornare ai fasti hollywoodiani.
Il film, scritto da Inarritu insieme a Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris e Armando Bo, ha però il difetto di ammiccare continuamente a cose più importanti, più intelligenti di come appaiono, e questo finisce per togliergli spesso quella partecipazione che il racconto meriterebbe. Tranne pochi momenti, è difficile provare una commozione profonda, un reale sentimento di condivisione verso Riggan, che rimane lì, da solo, in tutta la sua furiosa determinazione a reinventarsi.
Birdman è un film virtuosistico, con una regia e interpretazioni virtuosistiche, ma come alcune volte accade tutto questo virtuosismo, alla fine, allontana invece di avvicinare. Ci si gode tante singole parti, tutte eccellenti, ma ognuna rimane staccata nonostante il montaggio perfetto, come tanti piccoli camei che sembrano darsi di gomito, strizzarsi l’occhio l’un l’altro.
La stessa regia, pur magnifica nei suoi continui piani sequenza, con un montaggio che sembra non avere quasi mai tagli, difficilmente lascia spazio a una riflessione, a un cambio di passo. E la colonna sonora, un lungo assolo di batteria, nella sua bellezza finisce per essere stucchevole.
E la continua pretesa di volerti spiegare altre cose, su altri livelli, con metalinguaggi che vadano oltre la farsesca rappresentazione delle tribolazioni di Riggan, fa sì che non si sappia mai bene se godersi in santa pace la commedia o se invece si sia di fronte a un dramma e si debba iniziare ad arrovellare il cervello con pensieri più contorti e complicati.
Anche il finale, aperto e ammiccante, irrita più che stupire. Perché, attraverso la farsa, Inarritu si prende così tanto sul serio che alla fine il suo autocompiacimento ci lascia con la sensazione di essere un po’ traditi. Manipolati. Si resta divertiti a metà, emotivamente coinvolti a metà.
Ed è un peccato, perché il film ha tante cose dentro. A partire dalle interpretazioni degli attori. Certo, Keaton è bravissimo, ma ancor di più Edward Norton, capace di variare toni e gesti in un’infinità di sfumature. Emma “Big Eyes” Stone (Tim Burton avrebbe dovuto usarla come ritratto vivente nel suo film) è convincente, ottima Amy Ryan.
Birdman è un film che sotto la corta coperta della commedia vorrebbe dire grandi cose. La carne al fuoco è tanta, le menti sono pregne d’idee, intelligenza e volontà. Il tempo sembra giusto, il mondo lo vuole, ma poi, mentre nella sera si torna a casa infreddoliti, ci si sente un po’ stanchi per niente: affaticati per aver ricevuto, in fondo, un po’ poco in cambio.
Uno sguardo dall’interno tra vita e messa in scena
Alejandro Gonzales Inarritu (Amores perros, 21 grammi, Babel), tra i più acclamati registi messicani a Hollywood (con il compatriota Alfonso Cuaròn), è uno dei pochi che, rendendosi conto dello stato di cose del cinema attuale, decide di affrontare a testa bassa il mondo delle immagini per ridargli un senso, più ampio.
Riggan Thompson (Michael Keaton), attore in crisi, dopo aver ottenuto la fama grazie ad un film super-effettistico, di gran successo – Birdman – vuole che il suo talento d’attore gli venga riconosciuto anche in scena, lontano da personaggi psicologicamente banali e supportati dai roboanti effetti speciali a base di computer grafic. Scarsi supporti per un reale talento artistico.
Inizia così un duello con sé stesso e col modello/rivale Mike Shiner (Edward Norton), più acclamato e supponente, che si combatte sul palcoscenico di un famoso teatro di Broadway, in cui Riggan rappresenta l’adattamento di un opera di Carver.
Così in Birdman sono in discussione non solo il millenario desiderio dell’uomo di essere riconosciuto per ciò che è e fa, ma il senso più profondo dell’arte della rappresentazione e della recitazione, sintetizzate da cinema e teatro. Guidando un pianosequenza che accompagna le azioni, i pensieri, le relazioni del protagonista, dall’inizio alla fine del film, Inarritu offre allo spettatore una soggettiva sul mondo dell’apparire, sui conflitti, la disperazione, le intenzioni e le aspettative di un uomo acceso dal bruciante e competitivo desiderio di espressione.
Quello di Riggan è un narcisismo comico che sconfina nell’esistenzialismo tragico, nella dinamica stanislavskiana che antepone la vita alla messa in scena, sospesa nel continuo gioco dell’entrare e uscire, dell’essere e del voler essere, della realtà e della finzione. Si svelano i rapporti scontrosi, le piccole invidie, gli amori temporanei, la follia e la determinazione, quasi malsane, di un attore in equilibrio precario con la sua psiche, di un’artista ansioso di non essere coperto dalle nubi della mediocrità.
Nulla di più ambizioso che un’esperienza metateatrale e metacinematografica poteva regalarci uno sguardo così intimo al mondo dello spettacolo, vissuto tra attori, produttori e critici, spesso sbirciato nei camerini, tra tempestosi rapporti interpersonali. E ciò che ne viene fuori, prepotentemente, sono i ruoli, il senso delle immagini in movimento, della performance: non intrattenimenti seriali, ma vere sfide di un’umanità votata al sacrificio di sé per il riconoscimento degli altri, Fecondando la ragione con l’istinto, per costruire uno specchio critico dell’umano.
Tutti propositi che sembrano spesso svanire di fronte alle dinamiche economiche, in cui bilancio e pubblico la fanno da padroni, dimenticando quell’origine sacrale, dionisiaca della scena, che dal mito non traeva solo eroismo, ma pure provocazione (anche comica) e catarsi.
Inarritu critica il cinema dall’interno, proponendolo in una veste colta, appassionata, ambiziosa, con virtuosismi di macchina paragonabili a quelli di Arca Russa di Sokurov e intenzioni poetiche di alto livello. Keaton dà una prova di sé forse memore del suo successo con il Batman di Burton (1992) e un bravissimo Norton fa da bellicosa spalla.
I Golden Globe a sceneggiatura, cast e regista premiano il coraggioso tentativo di un autore di ridare lustro, tecnica e valore espressivo, quanto concettuale, al cinema contemporaneo.
Birdman, di Alejandro G. Inarritu con Michael Keaton, Edward Norton, Emma Stone e Naomi Watts