Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Il sesto incontro è con Cecilia Balestra, dal 2012 sul “podio” di Milano Musica
Non ama parlare di sé, Cecilia Balestra: alle parole preferisce i fatti. Ma se si tratta di dire la sua su politica e organizzazione della cultura, svanisce ogni timidezza. Proprio in questi giorni è stata inaugurata la ventinovesima edizione di Milano Musica, il festival che dirige dal 2012, preziosa rassegna di musica contemporanea dedicata quest’anno ai Caminantes: viandanti, esploratori, ricercatori incapaci di accontentarsi, un concetto cardine della poetica di Luigi Nono in cui Cecilia Balestra si riconosce totalmente: “Occuparsi di Milano Musica significa mantenere viva la curiosità culturale di chi ci segue: è in questo senso che facciamo servizio pubblico”.
È sempre stata questa la filosofia del festival?
Era la filosofia con cui Luciana Pestalozza l’ha fondato 29 anni fa: guidare il pubblico nella scoperta di nuovi mondi sonori.
È stata Luciana Pestalozza a volerla al suo fianco, nel 2007.
Avevo terminato da poco la mia esperienza a Rai Trade e sapevo che Luciana aveva avuto un cambiamento interno, così le mandai il curriculum. Abbiamo lavorato fianco a fianco per anni. A volte non mi accorgo che è da tanti anni che non c’è più. La sento sempre molto vicina, soprattutto nel periodo del festival: ogni anno il concerto dedicato alla sua memoria è quello a cui tengo di più.
Cosa le ha insegnato il lavoro con lei?
Che bisogna avere fiducia. Fiducia che ci sia ancora musica nuova da proporre e che ci siano artisti che valgono il nostro impegno. Fiducia che ci sia un futuro da costruire. Mi sono sempre riconosciuta molto nell’idea di costruzione in ambito culturale. Sarà che dopo il liceo ho fatto un anno di architettura: avevo in mente di costruire ponti, ma visto il mio rapporto con la tecnologia non ci ho messo molto a capire che sarebbero crollati. Da quel momento mi sono dedicata a ponti astratti, più affini alle mie capacità.
È questo che deve fare un operatore culturale? Costruire ponti?
Secondo me bisogna avere un profondo desiderio di condividere qualcosa, di rendere partecipi gli altri. Un festival in fin dei conti è anche una festa.
Da anni Milano Musica affianca al lato artistico una visione politica ed etica molto precisa.
È stata Luciana a cambiare lo statuto, per inserire tra le finalità anche l’inclusione sociale. Nel 2011 siamo diventati partner di Music Fund, che sostiene la raccolta di strumenti musicali e la formazione di riparatori di strumenti musicali e di tecnici del suono nei paesi del terzo mondo. Da allora vado ogni anno a Maputo, in Mozambico, dove abbiamo spedito centinaia di strumenti musicali per sostenere la loro attività, in un’ottica di economia circolare. Quest’anno, dopo il confinamento, due di loro hanno aperto il loro primo negozio, e un altro costruisce delle m’bira mozambicane dopo aver appreso le tecniche della liuteria a Cremona. Una sua m’bira è suonata anche da Les Percussions de Strasbourg.
Ancora ponti culturali.
Bisogna avere la tenacia di proseguire. In un certo senso non si tratta di un’attività, ma di un indirizzo: sostenere la ricerca significa anche confrontarsi con orizzonti diversi, con mondi diversi.
È questo che sono i Caminantes?
I Caminantes sono i cercatori, quelli che respirano con l’andatura, col movimento, che hanno il coraggio di guardare l’orizzonte. Mi viene in mente quando intorno ai vent’anni frequentavo scuola di vela nelle isole Glénan, in Bretagna, prima per imparare poi per insegnare. Ogni volta che tornavo sulle isole, dove uscivamo in deriva anche con 25 nodi e raffiche a 30, per i primi tre giorni non avevo il coraggio di guardare l’orizzonte dell’Atlantico. Poi ci riuscivo, respirando con quell’immensità, e mi saliva una sensazione mista di felicità e di adrenalina, forse anche un po’ di incoscienza.
Anche la musica può dare queste sensazioni?
Ci riescono i compositori che sono radicali nella loro ricerca, quelli con una personale necessità di espressione. Quando all’università frequentavo il seminario di Giovanni Piana, Nicola Pedone ci portava le registrazioni della Biennale di Venezia. Ricordo la prima volta che ho sentito un pezzo di Adriano Guarnieri: ero colpitissima dalla sua musica. Credo che l’opera d’arte non possa prescindere da una radicalità di fondo.
Quando è nato il suo rapporto con la musica?
Forse quando facevo danza classica da piccola. Poi al liceo ho cominciato a suonare il pianoforte. In casa ero la più appassionata al repertorio classico: ascoltavo tutto quello che potevo. Ero quasi contenta di ammalarmi perché potevo stare per conto mio ad ascoltare i dischi tutto il tempo che volevo. Quando sono arrivata all’università ho cominciato a fare fin dall’alba le famose code per il loggione alla Scala, almeno finché una volta sono stata la prima in coda a non poter avere il biglietto: c’era La Valchiria e Sieglinde era Waltraud Meier. Ero così delusa che da allora ho evitato quel rischio.
Non ha mai pensato di fare la musicista?
Non sono mai stata così brava: ho sempre avuto un forte senso critico che mi bloccava. Ma suono ancora, non il pianoforte. Quando avevo trent’anni ho capito che non potevo vivere senza provare a suonare le Suites per violoncello di Bach.
E le ha imparate?
Sì, ma le suono solo per me.
Secondo lei esiste un problema di inaccessibilità dei nuovi linguaggi?
Lavorando in un festival di musica contemporanea me l’hanno chiesto spesso. In realtà sono convinta che la musica non debba per forza essere capita a livello intellettuale.
In che senso?
Esistono tanti livelli di ascolto: i grandi compositori consentono sempre una gradualità. Io mi sono laureata su Rameau, che metteva la percezione al centro della sua teoria musicale. Ma anche Fausto Romitelli ad esempio difendeva l’idea che il corpo debba essere al centro di ogni esperienza musicale. Non esiste solo l’ascolto analitico o intellettuale, spesso si trascura il piano della pura percezione, quella che Rameau chiamerebbe risonanza del corpo sonoro.
Quindi nessun elitarismo della musica di oggi.
Al contrario, anche perché in molti casi è meglio che la musica sia enigmatica. È questo enigma che arriva a qualsiasi ascoltatore curioso, a prescindere dalle sue conoscenze pregresse.
Il pubblico di Milano Musica sta cambiando?
Noi abbiamo sempre la vicinanza e l’affetto del pubblico di Musica nel nostro tempo, ma da qualche anno partecipano sempre più giovani e studenti. In realtà si può dire che abbiamo una molteplicità di pubblici.
Guardando la programmazione, sembra che stia avvenendo un passaggio dal contemporaneo storicizzato al contemporaneo vero e proprio.
La commissione di nuovi brani è la parte più avvincente del nostro lavoro, per questo spero che si possa fare sempre di più, magari ragionando in termini di co-commissione internazionali come abbiamo fatto quest’anno per il nuovo concerto per pianoforte di Francesco Filidei. Ma allo stesso tempo penso che sia importante per il pubblico giovane sentire dal vivo i grandi capolavori del secondo Novecento, ad esempio Hymnen di Stockhausen o Persephassa di Xenakis. Sono pezzi che creano un ponte tra generazioni, che alcuni di noi hanno sentito nascere allora, ma che il nuovo pubblico deve ancora scoprire”.
E il futuro di Milano Musica?
Incrociando le dita sono positiva. Certo mi aspetto un periodo di difficoltà per tutti, visto che il PIL è a meno nove. Servirà qualche cambiamento per inventarci progetti dignitosi e di livello.
Quali cambiamenti auspica?
Bisogna piuttosto fare meno, ma con grande attenzione alla qualità e con maggiore complessità produttiva anche a livello di organici, se vogliamo dar lavoro a tutti gli artisti che in questo momento sono una delle categorie più penalizzate. La debolezza del nostro settore non è certo emersa con il Covid: sapevamo tutto anche prima dello scorso febbraio. È da decenni che abbiamo bisogno di una nuova legge dello spettacolo, e mi chiedo come si possa pensare di arrivare a certi livelli di qualità se i finanziamenti si basano soprattutto su vincoli quantitativi. Sarebbe fondamentale avere finanziamenti sempre certi e solidi.
Anche per sgravare gli operatori culturali da questo peso.
Rispetto a quando ho iniziato a fare questo mestiere, i nostri carichi di lavoro si sono spostati sulla comunicazione, sulla ricerca di fondi, sui bandi. Una volta un concerto si organizzava con un po’ di telefonate e quattro lettere ben scritte, oggi servono centinaia di mail. Il risultato è che manca il tempo per concepire programmazioni di respiro più ampio. Quando lavoravo alla Società del Quartetto, Maria Majno aveva intrapreso il progetto dell’integrale delle Cantate di Bach: dieci anni di concerti. Non so chi avrebbe questo coraggio oggi, o anche solo il tempo di pensarci.
Si è mai sentita penalizzata in questo ambiente per il fatto di essere donna?
Il problema non è l’ambiente musicale, che è abbastanza piccolo da permetterci di dimostrare quello che sappiamo fare. Il problema è il contorno. In Italia c’è ancora un approccio per cui se sei una donna il merito va fatto valere, non basta averlo. Quando un uomo inizia a lavorare e si mette una giacca viene subito trattato come un dirigente, una donna invece passa per l’assistente. Molto secondo me deriva dalle gerarchie: mi piacerebbe che ci fossero forme di organizzazione più orizzontali, in cui si lavora a un obiettivo comune e ciascuno dà il proprio contributo.
Nella foto di copertina Cecilia Balestra con il direttore artistico di Milano Musica Marco Mazzolini e Salvatore Sciarrino.