Il chitarrista e compositore Paolo Angeli si sarebbe dovuto esibire venerdì 30 ottobre al Teatro della Triennale per JAZZMI. Il coprifuoco ha fatto saltare (anche) la sua esibizione. Come ha vissuto questa esperienza? Covid e lockdown che sentimenti muovono in un artista che fa della sensibilità la sua materia prima? Riflessioni sparse raccolte a caldo su un concerto che non si é mai tenuto e dintorni
C’è un mantra che, con amarezza, è ripetuto ormai da tutti i lavoratori del mondo della musica, dello spettacolo dal vivo, della cultura. E recita: «i teatri sono un luogo sicuro». Ed è così, lo dicono i dati Agis (su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli, tra 15 giugno e 10 ottobre, si registra un solo caso di contagio da Covid 19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle ASL territoriali), e lo ribadiscono gli Assessori alla Cultura di undici tra le maggiori città italiane in una lettera indirizzata al Governo (ai Ministri Franceschini, Catalfo e Patuanelli oltre che al Premier Conte) in reazione alle nuove misure previste dal Dpcm presentato il 25 ottobre: «l’evidenza statistica dimostra che oggi proprio i teatri e i cinema sono, in virtù del senso di responsabilità dimostrato nell’applicazione delle misure medico-sanitarie da gestori, lavoratori e pubblico, i luoghi più sicuri del Paese, insieme a musei, spazi espositivi ed altri luoghi della cultura, mantenuti aperti dal Decreto. (…) Il settore dello spettacolo, che vede impegnate centinaia di migliaia di professionisti, è inoltre uno dei più rilevanti settori produttivi italiani, e ha recentemente richiamato dalla CIG quasi la totalità dei lavoratori al fine di garantire una paga dignitosa e un corretto trattamento delle diverse professionalità impegnate: sono le donne e gli uomini che hanno profuso il loro straordinario impegno per riaprire teatri e cinema nel pieno rispetto dei protocolli per la tutela della salute».
Eppure, lunedì 26 ottobre, questo mondo si è dovuto nuovamente fermare, e con esso tutti i suoi lavoratori. In ambito milanese è anche il sindaco Sala a intervenire sul tema, con un loquace post sui suoi social in cui esplicita di non poter «condividere le norme del DPCM sullo spettacolo».
Tra i tanti, si ferma anche JAZZMI, inizialmente ripensato in vista dell’adeguamento al coprifuoco lombardo delle 23 e ora interrotto bruscamente dalla nuova chiusura di sale da concerto, cinema e teatri. Prima di immaginarci questo scenario, avevamo fatto una chiacchierata con il chitarrista e compositore Paolo Angeli, che si sarebbe dovuto esibire venerdì 30 ottobre al Teatro della Triennale, e che da questa pandemia, durante il lockdown, aveva ricavato nuova linfa vitale per tornare a comporre, per realizzare molte idee latenti. Anche lui, però, sentiva la necessità di tornare su un palco e, come avevano fatto settimana scorsa Petra e Ferruccio di Musica Nuda, ci ha ricordato che il settore culturale deve riprendere a vivere perché anche la società possa farlo.
Come hai vissuto da musicista il periodo di lockdown? Quali conseguenze hai visto per il mondo dello spettacolo?
Per la musica questa pandemia è una spada di Damocle, perché il nostro è già un settore estremamente fragile, visto che a parte alcune eccezioni in ambito europeo si riferisce a un lavoro che non ha alcun tipo di protezione sociale. Questo vuol dire che un musicista, un tecnico luci, un tecnico del suono che resta a casa, per la maggior parte delle volte non ha un riconoscimento del suo statuto di lavoratore. È importante fare questa premessa, a sostegno di tutte le maestranze che lavorano intorno ai concerti. Io, in particolare, vivo in Spagna, a Barcellona, dove questa situazione è stata ulteriormente aggravata dal fatto che per la prima volta ho avuto la percezione dei confini geografici. Se prima era assolutamente normale per me partire alla mattina per suonare ad Amsterdam la sera, o suonare l’indomani a Washington o a San Paolo in Brasile, ora è diventato un miraggio e lo sarà per un periodo estremamente lungo – soprattutto per quanto riguarda le tournée intercontinentali che probabilmente riprenderanno solo nell’ottobre 2021. Io comunque ho accettato questa sorte come un agricoltore che perde il raccolto e ho reagito creativamente, ho dato risalto all’altro aspetto della produzione musicale, cioè a quello del lavoro di composizione, di studio, di registrazione… Sono riuscito a realizzare alcuni lavori che saranno pubblicati nei prossimi mesi e ho messo in cantiere altre produzioni che da anni volevo realizzare ma che essendo sempre in viaggio per suonare non riuscivo proprio a concretizzare. Questo periodo ha quindi coinciso paradossalmente con un momento di introspezione estremamente positivo.
Quest’estate eri tornato a suonare, la necessità di riprendere a fare musica e spettacolo dal vivo si sente: in Italia come sta andando?
In estate ho suonato, soprattutto in Sardegna, ed è stato meraviglioso reincontrare il pubblico perché mi ha dato la dimostrazione che la cultura è un bisogno primario: tutti i concerti a cui ho partecipato sono stati sold out. È stato bellissimo, perché ho avuto la percezione che c’è il bisogno da parte della gente dell’incontro, di andare ad ascoltare musica dal vivo. Per noi che viaggiamo, prendendo treni, navi, aerei prima di arrivare sul luogo del concerto, rivendico la serietà delle organizzazioni. Il momento in cui mi sento più al sicuro è quando salgo su un palco mentre quello in cui mi sento più fragile è quello in cui viaggio. Il nostro settore è messo sotto la lente di ingrandimento, si propone un numero di posti estremamente ridotto (200 persone in teatri da 1.000), mentre si vedono mezzi pubblici stracolmi di gente, e questo crea un’incongruenza profonda. Lo Stato dovrebbe, una volta per tutte, prendere coscienza dell’importanza del settore culturale e del fatto che, soprattutto in un paese come l’Italia la cui ricchezza sono le bellezze artistiche, tra cui includo anche la musica, la sua storia e le tradizioni popolari, la cultura sia una delle risorse economiche più importanti e andrebbe protetta.
E il paragone con l’estero? Percepisci delle differenze nel modo di affrontare i problemi del settore culturale?
All’estero una cosa che mi ha colpito molto è che ad esempio in Spagna c’è stata una reazione compatta e un’interlocuzione diretta con lo Stato che ha permesso che ci fossero delle misure di salvaguardia del nostro lavoro. Io stesso ho potuto avere accesso alla disoccupazione, cosa impensabile in Italia. Questo grazie a una battaglia di tutto il settore, che in Spagna sta lavorando a uno statuto per l’intermittenza dello spettacolo, rivolto in particolare al mondo dei tecnici, che è fondamentale in questo ambito, perché il musicista non è che l’ultimo tassello dell’organizzazione e arriva alla fine grazie a tutto il lavoro delle maestranze. Troppo spesso questo è un lavoro sommerso, un lavoro in nero: se ci si immagina un tecnico del suono in Francia si pensa a una persona professionalmente qualificata, mentre in Italia questo non succede perché a questi lavori non è riconosciuta una dignità. Da una parte l’Italia a livello artistico è un passo avanti rispetto al panorama internazionale e ha una marcia in più in tante realtà, dall’altra c’è uno squilibrio nel peso che il settore culturale ha tra le professioni.
Quando suoni per diversi pubblici come li affronti?
Io ho avuto la fortuna di poter far circolare la mia musica più o meno in tutti i continenti, dall’Africa al Sud America, dall’Australia all’Asia, e ogni volta è una scommessa distinta perché ciò che è scontato a certe latitudini diventa d’avanguardia in un altro contesto. Quindi quello che ho imparato è il concetto di relativismo della musica e dell’arte. Quello che faccio quasi sempre è lasciare aperto l’impianto di ogni live, in modo tale che a seconda dei contesti io possa cambiare radicalmente la scaletta in tempo reale, improvvisando o cogliendo spunti da un album, e questo metodo ti fa crescere tantissimo. Se hai la possibilità di metterti in gioco in ogni concerto, riesci ad arrivare al pubblico e a sorprendere anche te stesso, perché ogni serata diventa qualcosa di unico.
Come hai lavorato a Free Radiohead e come lo proponi in concerto?Free Radiohead (che avrebbe dovuto portare a JAZZMI, ndr) è una suite strutturata come se fosse un grande arazzo, all’interno del quale ci sono degli “appuntamenti” che sono i frammenti delle musiche dei Radiohead. È come se io avessi lavorato con un puzzle tagliando la discografia dei Radiohead, reinterpretandola ma soprattutto ricomponendola: le loro musiche affiorano come isole che sono ricollegate fra di loro attraverso l’improvvisazione, e questo fa sì che io abbia dei margini di libertà enormi per riuscire a spaziare tra una struttura e l’altra. Anche per questo in concerto, c’è una profonda libertà. Come dice il titolo: Free Radiohead, cioè come liberare la musica dei Radiohead dalla forma canzone. Questo è un esempio di come si possa far convivere la tradizione più arcaica con il rock, il post rock, o l’improvvisazione free più estrema legata alla figura di Ornette Coleman o Don Cherry.
E come definiresti la tua musica?
La considero una forma di fusion mediterranea, perché la mia musica ha molte relazioni con le sonorità mediorientali, con tutte le tradizioni che si sono trovate a convivere nella mia terra, la Sardegna. E così il jazz è una musica viva, è una musica che da sempre, partendo dalla radice afroamericana, è germogliata in direzioni diversissime, dal jazz elettrico al free jazz, dal jazz rock al jazz legato alle tradizioni etniche. Io faccio fatica a chiamarlo jazz etnico perché spesso quando si parla di musica etnica si pensa a una forma di world music molto patinata, mentre io mi sento più vicino agli esperimenti di un Don Cherry che partendo dall’improvvisazione jazzistica aveva avviato dei progetti con musicisti marocchini. Per cui la mia è una musica improvvisata in cui il richiamo al jazz è molto presente (soprattutto in questo progetto sui Radiohead, in cui certi fraseggi richiamano Jaco Pastorius o Pat Metheny), e allo stesso tempo però rievoca un concetto di uomo del mediterraneo contemporaneo: oggi la Sardegna può trasmettere un concetto di contemporaneità legata alle culture del mediterraneo e allo stesso tempo avere lo sguardo proiettato oltreoceano nella cultura afroamericana.
Come ti appare la scena jazz italiana?
Osservare la scena italiana in questi mesi mi è servito per avere la conferma che, come era già successo negli anni novanta, quando gli esponenti del jazz mondiale trovavano proprio nella nostra penisola musicisti con cui collaborare, che è una realtà estremamente fertile, tutta orientata ai grandi ensemble di improvvisazione, così anche oggi in Italia si è riuscito ad avviare un cambio generazionale, e ci sono moltissimi musicisti che io stimo, come tutti gli artisti che girano intorno all’etichetta discografica Auand, legata a un concetto di jazz molto aperto alla direzione del pop, del post rock. Poi ci sono tantissimi altri musicisti che stimo che sono poco più che ventenni. C’è una maturità nei giovani musicisti che li porta a cogliere l’eredità dei grandi jazzisti italiani, da Trovesi a Schiaffini a Fresu, e a portare contemporaneamente il jazz italiano in una dimensione più globale, raccogliendo all’interno di questo linguaggio tutte le esperienze legate agli altri generi.
Questa scena giovane, però, rimane forse un po’ sommersa?
Forse il destino della musica è questo. Perché tra le nuove generazioni, che sono cresciute con la possibilità di ascoltare su app tutte le musiche del mondo e di cambiare continuamente il proprio ascolto, succede che sia il musicista medio che l’ascoltatore medio hanno nelle orecchie tantissima musica, e quindi io vedo come processo naturale un metalinguaggio che sintetizzi tutti questi ascolti. E per quanto da un lato ci sia una tendenza all’“ortodossia”, soprattutto con la chiusura delle frontiere che riporta a dimensioni locali, dall’altro lato ci sarà una necessità di fuga da queste tradizioni, la necessità di scappare dalle frontiere, uscire dai confini… e nell’arte questo vorrà dire ancora una volta trovare esperienze nuove di sintesi, di incontri, di linguaggi inesplorati, e sarà un momento di creatività inaudita. Sono fiducioso che i prossimi anni saranno ricchissimi di nuove idee. L’Italia quindi in termini di talenti ha già colto questa sfida, quello che dovrebbe succedere è che ci siano dei direttori artistici altrettanto coraggiosi che abbiano voglia di dare voce a queste musiche non lasciandole più “nel sommerso” ma dando loro la possibilità di essere proposte sui palchi principali.
Il tuo ultimo lavoro, Bodas de sangre, è ispirato all’omonimo dramma teatrale di Garcìa Lorca: da dove è nata questa idea?
Bodas de sangre al momento è uscito solo in formato digitale, ma l’idea sarebbe quella di dare forma da un lato alla mia frequentazione con il flamenco e dall’altra di contestualizzare il dramma di Lorca nelle periferie di Barcellona (che io ho vissuto) e delle grandi città della penisola iberica dove le antenne iperboliche e i palazzoni hanno sostituito l’immaginario del gitano con l’accampamento, con il cavallo, il carro, … io quindi ho voluto raccogliere la storia di Lorca attualizzandola e portandola in questo panorama contemporaneo con un paesaggio non rurale ma in un mondo urbano, noise e post-industriale. Ed è un lavoro che probabilmente nei prossimi mesi sarà inciso anche su supporto fisico.
E ora?
Questo è stato un periodo molto produttivo per me, in cui è stato strano dover “spegnere i motori”, ma adesso non vedo l’ora di riaccenderli, cercando di riprendere a viaggiare il più possibile. Anche se questa crisi ha messo in evidenza la pazzia del nostro mondo, noi artisti siamo un po’ come i pomodori da supermercato: è difficile mangiarne a chilometro zero!