È il sabato del villaggio, il tempo di una vigilia mai così preoccupata: riusciremo a vedere Donald Trump lasciare la Casa bianca dopo quattro anni e una gestione della pandemia devastanti?
Non mi sembra vero che siano passati quattro anni dallo shock della vittoria di Donald J. Trump alle elezioni. Ricordo la felicità che avevo provato nel sapere per certo che Hillary Clinton avrebbe vinto e che le mie figlie sarebbero cresciute in un mondo in cui le donne, sì, anche le donne, possono diventare le persone più potenti del mondo. Un po’ le invidiavo: tutti gli anni passati a urlare a squarciagola alle manifestazioni dell’otto marzo o agli amici maschi che insistevano a dire che chi mette la minigonna in fondo se la cerca. Credo che per gli afroamericani sia andata più o meno così quando ha vinto Obama: finalmente vengono riconosciuti.
Insomma, quattro anni fa ero molto felice, convinta che avrebbe vinto la Clinton. Quindi la doccia fredda alla notizia della vittoria di Trump la sento ancora ogni volta che qualcuno pronuncia le seguenti parole: President Trump.
Sono poi stati quattro anni devastanti per l’America: scandali, bambini chiusi dentro le gabbie, strappati dalle braccia dei genitori che adesso non sanno come trovarli; tweet pieni di odio verso chiunque parlasse male di lui, l’incapacità di affrontare la pandemia ascoltando i consigli di medici e scienziati ma dicendo che per curarsi si potrebbe bere della sana varechina; gli occhiolini a Putin, a Kim Jong-un; le offese alle donne, l’evasione delle tasse, istigazione alla violenza, profonda divisione all’interno degli Stati Uniti e chi più ne ha più ne metta.
Personalmente, sono stati anche quattro anni imbarazzanti: dopo Obama, che tutto il mondo ci invidiava, è arrivato questa specie di pallone gonfiato, ignorante e viziato, uno showman antipatico. Un po’ come quando avevamo Berlusconi e i miei amici americani, ridendo, dicevano “Ah! Bunga Bunga!”. Hai voglia a spiegare che avrei fatto di tutto perché non fosse al potere.
Prima delle elezioni, si seguono i dibattiti tra i candidati (in questo caso soltanto democratici, perché nessun repubblicano ha osato candidarsi contro Trump), poi ci sono le primarie, per decidere chi sarà il candidato che affronterà Trump cercando disperatamente di cacciarlo dalla Casa Bianca. A me piaceva Bernie Sanders, per cui ho votato alle primarie, o al limite Elizabeth Warren, entrambi di sinistra, entrambi con delle idee molto chiare su istruzione, sanità, tasse. Insomma, con una visione più nord europea dell’America. Biden non l’avevo neanche considerato: è vecchio, bravo ma un po’ di centro. Poi avevamo voglia, noi sandersiani, di un vento nuovo. Invece poi Biden ha vinto le primarie e niente, ce ne siamo fatti una ragione. Per la prima volta, gli Stati Uniti votano contro qualcuno; noi italiani siamo abituati, ma i nostri cugini statunitensi si sentono un po’ a disagio.
E ormai siamo agli sgoccioli: tra qualche giorno si voterà. Finirà tutto il rumore che fanno le campagne elettorali, finiranno i comizi di migliaia di persone affollate e senza mascherina che ascoltano Trump come se fosse un santone. Il tre novembre calerà finalmente il silenzio, e si alzerà a livelli gravi la preoccupazione che tutto questo incubo possa continuare per altri quattro anni.
Siamo ancora al sabato del villaggio, al momento di attesa con un po’ il fiato sospeso, ma almeno adesso abbiamo ancora la speranza di vedere Trump uscirsene dalla Casa Bianca con la coda fra le gambe. Dopo il tre, non ci sarà più tempo di sperare, di sognare.
E che Dio ce la mandi buona.
In apertura: foto di Samantha Sophia/Unsplash