Chi era Herman Mankievitz, fratello del grande regista Leo, che scrisse la sceneggiatura di “Citizen Kane” e finì in rotta di collisione con l’autore e protagonista del più gran film della storia del cinema? Un altro regista di nome, David Fincher, ricostruisce la vicenda con un protagonista eccellente, Gary Oldman. Sposando la tesi che “Mank” avesse (quasi) tutti i meriti del racconto sul favoloso magnate
Nella scena forse più classica e al tempo stesso “esagerata”, ma anche visivamente più riuscita, di Mank, Herman J. Mankiewicz, lo sceneggiatore di Quarto potere di Orson Welles, fratello di Joseph Leo regista di Eva contro Eva e Cleopatra, visibilmente in preda ai fumi dell’alcool e reggendosi a mala pena in piedi, rivela che alla base della sua complessa tessitura, ispirata alla biografia del magnate William Randolph Hearst (Charles Dance) che gli sta davanti allibito, c’è l’immortale epopea pisco-filosofica di Don Chisciotte, Sancho Pancia e Dulcinea. E che la parabola di questo egocentrico ex sovversivo socialisteggiante, poi amante del potere, del denaro e dell’amore verso di lui (da parte di donne, dipendenti, elettori, spettatori) si doveva leggere come una sorta di anti-redenzione, di viaggio verso e con la parte peggiore di sé alla disperata ricerca di un pathos favorevole degli altri nei suoi confronti. Per combattere una solitudine che nella sua vita nasceva molto da lontano, nel tempo e nello spazio.
Ma se in Kane c’era molto di Hearst e poco di Welles, della sua personalità “bigger than life”, come poi molti hanno al contrario sostenuto, forti della stessa, sovrumana interpretazione di Orson, lo si doveva al fatto che alla stesura dello script, come si vede senza alcuna reticenza in Mank, il futuro genio del cinema non partecipò quasi per niente. Una tesi che ha preso forza dal 1971, dopo un famoso scritto della critica Pauline Kael, e che Fincher mostra senza remore e incertezze di condividere. In più il regista e primattore di Quarto potere, sempre secondo questo filone di pensiero, tentò poi, assai poco elegantemente e moralmente – e con scarso successo – di occultare la sua modesta partecipazione al copione estromettendo dai titoli di testa il 43enne, infortunato Herman Mankiewitz. Il quale in tempi record aveva invece confezionato una delle più grandi sceneggiature della storia del cinema, confinato a letto per una triplice frattura a una gamba, in un’isolatissima casa nel deserto del Moyave, assistito da una segretaria geniale (Lily Collins) e dalle amorevoli telefonate della moglie (la “povera Sara”), lontana ma piuttosto presente.
Del resto l’intero film di Fincher (Alien 3, Seven, Panic Room, Benjamin Button, The Social Netwok, Millennium, L’amore bugiardo, due nomination all’Oscar e tre ai golden globe, uno vinto per il film su Facebook), che viene dato in pole position per i prossimi Oscar ed è visibile dal 4 dicembre in tutto il mondo sulla piattaforma Netflix, sembra più dedicato a (che girato su) Mankiewicz detto “Mank”. In quell’affascinante e venefica Hollywood anni 30 che descrive, spiccano Louis B. Mayer, Irving Thalberg e Marion Davis (l’ottima Amanda Seyfreid di Mamma mia e Les Miserables, Lovelace e Adorabile nemica). E’ popolata certamente (come prima e dopo quegli anni, del resto) di son of a bitch alla Blake Edwards, manipolatori del pubblico e degli elettori, qui finanziati da Hearst e impegnati nella difficile convivenza con la Grande depressione e il presidente Roosevelt. Ma resta pur sempre il luogo in cui geniali inventori di immaginari collettivi hanno allestito uno spettacolo che tuttora resiste all’usura del tempo.
Nel 1941 Orson e Mank vinceranno “insieme”, per lo script, l’unico Oscar attribuito a Citizen Kane, arrivato alla serata finale da gran favorito con una decina di nomination all’attivo, le più importanti. Nessuno dei due andrà alla cerimonia: ma se Orson, al lavoro in Brasile, elegantemente nasconderà la sua ovvia delusione con un “questa è Hollywood”, Mank avrà modo di far sapere al mondo che quel racconto era in gran parte (se non tutta) farina del suo sacco. E della sua vita, anche assai privata e dolorosa.
Lo splendente bianconero allestito da David Fincher, che saggiamente non imita tempi antichi ma mette in campo tutta la perfezione della tecnologia di oggi – pure troppa, forse – incarna ed esalta l’interpretazione di Gary Oldman, per molti in odore di seconda statuetta (la prima l’ha vinta due anni fa come Winston Churchill nel riuscitissimo L’ora più buia), nonostante la notevole differenza d’età col personaggio, che un poco, e con fascino, in effetti invecchia. Sostenuto dai dialoghi di John Fincher, padre di David, che mai riuscì a realizzare a Hollywood una storia così scomoda su Hollywood, lasciando il testimone al figlio, non si discosta molto dalle classiche pitture d’ambiente sulla Mecca del cinema. Con la fermezza però di ricordare che quell’umanità già un po’ decadente assisteva senza troppa perspicacia, e in fondo nemmeno eccessiva preoccupazione, alla grande fame americana di quegli anni. E si illudeva sull’avanzata della Germania nazista, fenomeno creduto non molto duraturo. Ma quel film, purtroppo, lo girò qualcun altro.
Mank di David Fincher, con Gary Holdman, Amanda Seifreyd, Charles Dance, Lily Collins, Arliss Howard, Tom Burke, Tom Pelphrey, Sam Troughton
Adams e Close in un bel duetto
Sempre in tema di film da oscar prodotti da Netflix, e visibili solo su quella piattaforma, merita una segnalazione l’ultimo diretto da Ron Howard, che ha ormai una carriera quasi quarantennale da Cocoon a Apollo 13, da A Beautiful Mind a Frost/Nixon e Rush. In Elegia americana , scritto da Vanessa Taylor sulla base del libro di memorie del 2016 di J.D.Vance, si racconta con stile abbastanza classico, ma non privo di asprezze e toni drammatici, il sogno americano in versione moderna, Il confronto è fra tre generazioni e la storia ruota intorno a J.D., ex marine e studente di legge a Yale che è sul punto di ottenere il lavoro dei suoi sogni in uno studio di punta. Ma un disastro familiare – la madre ricoverata in ospedale dopo l’ennesima overdose – lo costringe a tornare alla casa delle origini nell’Ohio, da cui era quasi fuggito cercando di rimuoverla dalla sua esistenza. Perché al centro del racconto c’è sempre il difficilissimo rapporto con la genitrice (l’eccellente, indifesa ma non arresa Amy Adams). Grazie ai ricordi della nonna Mamaw (partner adeguata, una Glenn Close ruvida e irresistibile), donna forte e intelligente che si è sempre occupata di lui, J.D. (Gabriel Basso), affronta un viaggio personale che finirà per fargli accettare anche questa famiglia decisamente disfunzionale. Tra dolori e scene madri, un racconto di sopravvivenza nell’America profonda.