Il dittico ronconiano al Piccolo riapre il dibattito: la memoria di serate memorabili e infinite, i casi più clamorosi di sequestri di pubblico per 24 ore. Anche Strehler non scherzava…
Domanda fatidica, all’ingresso: a che ora termina, scusi? Da qui partono gli umori e le stellette del pubblico: c’è chi ha un suo monte ore e non lo supera.
C’è stato il periodo dei tre atti con due intervalli con costosissimi bon bon, dei due tempi, degli atti unici, ora va per la maggiore un tempo solo filato (subito vale un sorriso) e difficilmente si superano 80-90’, a parte la tetralogia wagneriana ma qui siamo in altra zona. Però nel corso di storiche serate, ci sono stati anche spettacoli infiniti e qui i record se lo giocano i due, sempre loro, grandi maestri: Strehler e Ronconi.
È chiacchierato più il secondo del primo per memorie di reumi, torcicolli, posture insane, arti indolenziti (L’Orestea, Utopia, Ignorabimus con attrici dimagrite a vista in digiuno per giorni e notti intere, solo patatine fritte), mentre a volte ha lasciato libero di circolare il pubblico che così adoperava trasversalmente le diverse ore (il Kraus di Gli ultimi giorni dell’umanità, il celeberrimo Orlando furioso).
Anche Strehler non scherzava, lo stesso Arlecchino arriva alle 3 ore e mezzo senza sconti: c’è chi ancora ricorda l’anteprima della prima giornata del Gioco dei potenti al Lirico, finita alle 3 del mattino, bellissima alba di giugno, volti stanchi ma felici. Era uno spettacolo scespiriano (due Enrichi e un Riccardo, il III certo) in due giornate: un capolavoro in anticipo sui tempi, anche nel senso del marketing. Intermission, un giorno, così come oggi per la Lehman Trilogy che totalizza 5 ore che si possono assumere anche in una volta sola e per cui non c’è più un posto libero (chi non trova un buco si legga almeno i Fratelli Ashkenazy di Singer).
E le biografie sono a rischio: Lunga giornata verso la notte di Eugene O’Neill è una recherche di 4 ore, con molti drink. L’usanza del lungo è però di base teutonica, anche se pure le grandi riviste di un tempo, (le Wandissime, i Macario, i Dapporto, i Walter Chiari che non lasciavano la passerella) finivano dopo l’una di notte, tra i profumi sordidi delle ballerine, con i ragazzi, compreso Giovanni Testori, in corsa davanti al Lirico per l’ultimo tram.
L’austro ungarico triestino Strehler amava le tirate brechtiane ma non solo di Brecht: il suo Faust bevuto d’un sorso, tra le 6 e le 7 ore, nel teatro Studio appena aperto, fresco di cinismo architettonico, con panche dure e senza schienale, mise a dura prova, pur con gran rifornimento di emozioni interiori, alcuni sistemi circolatori, con record di formicolii e lotta di bastoni senili per i gradini.
In tempi non sospetti, raccontano, esempio all’Odeon per Il lutto si addice ad Elettra, che c’era un lungo intervallo dopo il primo tempo per permettere la cena elegante in terrazza, come aveva previsto Dodin con il suo Fratelli e sorelle (ma solo snack), epopea con tempo per respirare e ripensare (accadde anche con Grossmann, qui siamo al panino al bar).
Furono una sorpresa invece le 6 ore indimenticabili dei Giacobini con la giovane Vanoni in scena a cantar la rivoluzione, le 5 e passa del meravigliosissimo Galileo (si cita il titolo più cattivo di Arbasino: Galilei e Giovannini), le 4 del Lear circense e quelle dell’Opera da tre soldi, momenti di teatro memorabili senza un attimo di stanchezza (e anche l’Opera al neon di Bob Wilson arrivava alle 5, diversa meraviglia).
Tra gli exploit Mahabarata di Brook che però è capace anche di durate lampo, le 7 ore in tre serate di Utopia di Stoppard, il Faust infinito tedesco di Stein, cui si devono anche le 24 ore dell’Orestea in patria e le 12 ore italiane dei Demòni dostoevskjiani, capolavoro assoluto somministrato con alcuni stop dalle 10 del mattino alle 22, in crescente emozione alla Bicocca provvista di tavoloni da ristoro mensa.
Tra i nuovi record il Francamente me ne infischio (Via col vento di Latella) di 6 ore, il teatro totale di Jan Fabre (8 ore ma con possibilità di andare e venire, bar, caffè, pipì, noia), alcune riviste di quasi 4 ore dei Legnanesi (ora redenti), le due giornate, speriamo prossime ad essere riprese, di Angels in America nella storica magistrale versione dell’Elfo di Bruni-De Capitani: 7 ore e passa che vorremmo ricominciare subito.
L’importante è diventare evento, ma con una causa, non per solo marketing. Altrimenti aveva ragione Hitchcock che diceva che un film deve durare quanto può reggere la prostata di un uomo di mezza età. Woody Allen non la dice così ma in genere la pensa allo stesso modo: 90-95’ e poi tutti a casa.