Vita da portiere ‘amatoriale’ al tempo della pandemia e dell’astinenza da calcio. Quando tutto quello che vorresti vedere di nuovo è quella palla che schizza sul campo per sperare, ancora e ancora, di stringerla forte tra i guanti…
Mi chiamo Stefano, ho trentotto anni e non tocco un pallone da 96 giorni, 17 ore e 48 minuti. Come chi prova a smettere di fumare o bere, in queste settimane mi sono buttato su qualunque palliativo potessero offrirmi la scrivania e il divano: ho vinto tutti i campionati del mondo dall’Austria allo Zimbabwe con Pro Evolution Soccer e non mi sono perso nemmeno una partita alla tv di qualsiasi sport prevedesse gente che corre dietro a una palla per colpirla coi piedi. È stato come provare a spaccare un sasso con un lecca lecca.
In cucina, sul frigo, ho appeso con le calamite il ritaglio di una vignetta. C’è su una coppia. La ragazza dice “Allora dillo che vuoi più bene alla tua squadra di calcio che a me”. Lui ribatte “Arriva almeno in serie B, poi ne riparliamo”.
Io non sono così, ci mancherebbe.
Cioè, non proprio proprio così.
D’altra parte, il bello del calcio è che ti dà sempre qualcosa da aspettare. Il bello del calcio è che pensi sempre che se non succede, tanto prima o poi succede. E forse te la vivi un po’ meglio. Forse.
Io non sono così.
Però inizio a rendermi conto di aver sviluppato, col passare degli anni, una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti del calcio. Più la posta in palio è alta, più una partita è importante, e più la odio quando c’è e mi manca quando non c’è, con la sua tensione, l’adrenalina, la concentrazione, la voglia e la paura.
Certo, un po’ me la sono cercata.
Avrei potuto essere un eccellente mediano di rottura, di quelli che corrono dietro al regista dell’altra squadra e non gli fanno toccare il pallone, e per farlo non devono neanche avere i piedi buoni, anzi. Appena rubano la palla, la passano a chi hanno più vicino, piano e facile, per l’amordiddio senza tentare lanci, cross, verticalizzazioni o altre stranezze, e il loro lavoro è finito lì. Indispensabili, ma accuratamente alla larga dai riflettori. Chi è scarso coi piedi, ma almeno corre, è quella la fine che fa.
Con chi invece è pure corto di fiato, la legge dei giardinetti è implacabile: fisso in porta, che tanto in porta sono tutti scarsi uguale. La mia vita di guantoni, pallonate e sbucciature comincia lì. Comincia lì e non finisce più.
Ma chi ce lo fa fare? Voglio dire, non è mica facile.
Alcuni dei miei compagni di squadra, in questi mesi di riposo forzato, hanno iniziato a pensare. Al primo freddo vero dell’anno, ai momenti lavorativi particolarmente pesanti, a questioni familiari di varia natura o semplicemente al tempo che passa impietoso tra giunture che scricchiolano e pancetta che avanza. A vedere il pallone, la squadra e la partita come qualcosa di cui potere all’occorrenza fare a meno, mentre attorno a loro genitori, mogli, coetanei e fidanzate tirano un sospiro di sollievo: “È cresciuto”, pensano. Perché il calcio, soprattutto quello amatoriale, con la squadra di amici o la sera dopo l’ufficio, dopotutto è solo un gioco.
E invece no. “Amatoriale” è chi non ha la fortuna di poter vivere della propria passione, ma non riesce lo stesso a farne a meno. La coltiva a fatica, tra famiglia, lavoro, esami e persino pandemie. E gli altri non sempre capiscono.
Eppure, basterebbe provarlo una volta, questo gioco, per capire che c’è qualcosa di meravigliosamente ancestrale nella continua sfida a noi stessi e agli altri. Niente riesce a mettere in luce i nostri errori e limiti in modo altrettanto impietoso e lucido: limiti fisici, limiti di concentrazione e intelligenza, limiti caratteriali e di relazione con compagni e avversari. Niente ci rende allo stesso modo indispensabili e dipendenti dal gruppo.
Prendete proprio il portiere. Si dice che, a ogni gol subito, il portiere sia l’uomo più solo in campo. Non è il semplice giocatore che, sbagliato un tiro, anche facile, ha il resto per la partita per rifarsi, per provare ancora e ancora.
Non esistono tiri imparabili, non esiste il “non potevi farci niente”: nella testa del portiere ogni gol subito è un errore, perché potevi piazzarti meglio, potevi partire prima, essere più svelto, più preciso, più freddo, più bravo. Per il portiere, quello col numero uno, quello con la divisa diversa e un posto in campo tutto suo che sembra un recinto, una gabbia, pare non esista una seconda chance.
E invece c’è. È nelle facce tirate e il fiato corto di chi ti sta intorno con la maglia uguale. È nella lotta del difensore che viene a farti scudo e si batte su ogni palla. È nella corsa dell’attaccante che ne segna subito un altro e ti riporta in vantaggio. E allora pensi che la prossima volta, costi quel che costi, succeda quel che succeda, tu quel gol non lo prendi più.
Gli eroi dello sport e le loro storie nascono dalla voglia, anzi, dal bisogno di vedere in ogni limite non un ostacolo, ma un buon punto da cui (ri)cominciare. Per loro, per noi, per tutti noi, “amatoriale” è solo una parola come tante, ti allacci gli scarpini e l’hai già dimenticata. Dalla TV, dai giornali, tutto questo non ce l’hai. Sembra tutto lento, asettico, freddo. Non lo capisci finché non ti aggrappi al terreno con i tacchetti, ogni cosa inizia a girarti intorno veloce, e tutto quello che vedi è la palla. Non ti serve altro, se non quella, e un po’ di speranza, che non guasta mai.
La speranza di un gol o di una parata. La speranza di un lieto fine.
Perché, per quanto sia dura digerire la sconfitta o smaltire la fatica del momento, ogni volta lo rifaresti uguale. Anzi, no: lo rifaresti meglio. Perché tutto passa, e tutto ricomincia.
Quando ti fermi, e la sera a casa svuoti la borsa, ti trovi a guardare un’ultima volta gli scarpini accartocciati, i guanti consumati e la maglia fradicia. Senti le gambe che tirano fino al giorno dopo e le dita delle mani che si piegano a fatica. Rivedi i gol segnati e quelli presi, la delusione e l’esultanza, le prodezze, gli errori, quel che c’è da migliorare e quello che, a furia di provare e riprovare, finalmente ti riesce bene.
Pensi che comunque ne vale la pena. Ne vale sempre la pena.
E che se non succede, tanto prima o poi succede.
In apertura, foto di David Clarke/Unsplash