Su Netflix da non perdere “Pretend it’s a city”: in sette scoppiettanti puntate di mezz’ora l’una, il grande regista di “Taxi Driver” racconta con, o meglio fa raccontare a Fran Lebowitz, cos’è la “città che non dorme mai”. Lei ne conosce ogni angolo e comandamento, ogni virtù e supremo vizio, ogni tic e abitudine. Ne è nata così una miniserie che è insieme un documentario e una commedia sofisticata, in cui si parla con Spike Lee e Robert Stigwood, di Andy Warhol ma non di Woody Allen
Nel mare magnum di Netflix, accanto ai best seller già riconosciuti come il nuovo Lupin III black, La regina degli scacchi e gli amori in costume ma più spesso senza di Bridgerton (molto somigliante alle vecchie commedie del grande attore genovese Gilberto Govi, come I maneggi per maritare una figlia), ci sono alcune perle nascoste da scoprire: vengono da cinematografie poco consumate come la Turchia (Ethos) o la Danimarca (Borgen), ma hanno anche firme molto altolocate, come le sette puntate di 30’ l’una di Pretend it’s a city (Facciamo finta che sia una città), miniserie scoppiettante fra il documentario e la commedia sofisticata realizzata da Martin Scorsese (lontano dai suoi “bravi ragazzi”), che si diverte come un matto a intervistare e omaggiare il talento, l’humour e l’intelligenza di Fran Lebowitz, già utilizzata come guest star nel Lupo di Wall street.
Chi è costei? Autrice, cabarettista, star da stand up comedy, scrittrice anche per bambini (ma in Italia i suoi libri non sono tradotti), taxista, umorista e battutara, venditrice di cravatte on the road, ospite fissa di popolari talk show americani di Letterman, Spike Lee e Alec Baldwin, soprattutto nuovayorkese purosangue (nata il 27 ottobre 1950 nel New Jersey), come Woody Allen o Philip Roth, ma con libertà di uscire dal recinto dorato di Manhattan. Di famiglia rigorosamente ebraica, 70enne rigorosamente lesbica, mrs. Lebowitz diverte il pubblico con un umorismo che viene dalla strada non nel senso neorealista, ma perché nasce dalla osservazione quotidiana, day by day lungo i decenni, della popolazione che gira e si aggira nella Grande Mela. Il banale titolo italiano della serie è Fran Lebowitz una vita a New York.
Della città che “never sleeps” come canta Liza Minnelli, la Lebowitz conosce ogni angolo, ogni comandamento, ogni virtù, ogni supremo vizio, ogni tic e abitudine, tutti i peccati, non solo i mortali ma anche molti veniali. Fran, che racconta come sanno fare solo i grandi letterati i rapporti con la famiglia, ripassa senza far sconti a nessuno il mondo di tutte le industrie culturali, ed è spiritosissimo il suo racconto di Evita quando parla con Robert Stigwood, mentre è altrettanto irresistibile l’amarcord del pezzo di vita passato sui taxi. Le battute sono infinite e mai gratuite, come se lei fosse davvero la cittadina prescelta del famoso poster di Steinberg che disegna New York epicentro del mondo: parla di Andy Warhol con cui collaborava in Interview e del periodo 68ino, dei giornali off e della sua esperienza di critico cinematografico, dei film brutti (ne trova uno anche di Scorsese, che non era proprio un B movie; America 1929 sterminateli senza pietà), racconta le lotte civili gay di cui New York è stata l’epicentro e si sofferma molto sui libri, curiosando tra gli scaffali, visitando negozi e confessando di non poter mai vedere un volume gettato nel cestino dei rifiuti.
Certo, il divertimento sta molto nella sua dialettica, nel tempismo interiore e nel ritmo che lei imprime, nel naturale calcolo con cui introduce gli argomenti, metti il botta e risposta con Spike Lee sullo sport che il regista ama e per lei non esiste, nessun premio a Leni Riefensthal. Questa lunga chiacchierata, che si vorrebbe non finisse mai, intervallata fra luoghi ora privati e ora affollati, fra tavolini di bar e palchi di teatri pieni, ogni tanto anche camminando attenta su un modellino della Grande Mela, è un tale fuoco di invenzioni e osservazioni che è impossibile riassumerle: è come, per dirla con un titolo di Ennio Flaiano, una “conversazione continuamente interrotta”, e a dire la verità, non per snobismo, questa conversazione in cui Scorsese fa da spalla andrebbe ascoltata in originale.
Più cinica di Woody Allen (mai nominato), meno rinchiusa nel quadrato dei sentimenti e del radical chic e di qualche viaggio premio in Europa, la Lebowitz nel suo abbigliamento quasi militare e casual (ma si scoprirà che i gemelli sono pezzi preziosi) è una miniera. Sfodera serie di fatuità o di fatue serietà da cui si esce arricchiti, perché tutti noi ci riconosciamo anche se non viviamo a N.Y., però la tangenziale dei suoi ragionamenti è larga e sfiora altre capitali del mondo, altri nodi della coscienza civile e altri imbuti sociali e culturali, andando sempre oltre la moda spicciola per entrare alla grande nella civiltà del rapporto di comunicazione e relazione con gli altri. Come quando confessa a Martin un segreto, che si può andare davvero d’accordo, e ci si può davvero conoscere, solo se si ha la stessa età. Per loro due, con un saltino di 8 anni per il regista di Taxi driver (che è del ’42), il calendario si rallegra e la stima si rinsalda.