Una chiacchierata tra i canali di Venezia, per immergersi nella ricerca di Maria Morganti (Milano, 1965): dove il processo conta almeno quanto il risultato
Maria mi accoglie nel suo atelier veneziano, a Cannaregio, il quartiere settentrionale della città.
Nata a Milano e cresciuta artisticamente a New York, dopo aver vissuto l’energia frenetica delle metropoli ha trovato il suo posto ideale in Venezia, una città diversa da tutte le altre, a sua volta un mondo nel mondo; senza mezzi di trasporto, traffico o biciclette, ma dove tutto il mondo si trova di passaggio, accostando l’atmosfera di provincia a quella del palcoscenico internazionale.
Guardando le sue opere la simbiosi con la città in cui vive appare perfetta e inevitabile.
“Non è però la città che ha determinato il mio modo di dipingere, sono io che ho trovato a Venezia la mia conformazione ideale” precisa mentre mi accompagna in un’area delimitata della stanza.
È il luogo dove dà vita alle sue opere. Una piattaforma rialzata di cemento elastico in cui esegue ogni giorno i suoi gesti pittorici. Uno studio nello studio. Un mondo nel mondo, ancora una volta.
“Tutto ciò che ho assorbito nei miei anni a New York l’ho dovuto lasciar sedimentare”.
La sedimentazione è un processo fondamentale nella sua carriera, è la testimonianza del tempo che scorre lentamente ma inesorabilmente, lasciando una traccia del suo passaggio.
“Ho iniziato usando una palette di dieci colori. Poi dopo un po’ di tempo mi sono accorta che ne usavo solo tre o quattro, così ho ridotto. Fino ad arrivare a uno solo”.
Ogni mattina, dal 2006, Maria entra in studio e si dirige verso la sua ciotola, che trattiene il colore usato il giorno prima. Seleziona un tubetto nuovo e lo aggiunge alla ciotola, formando il colore che userà per quella giornata. Quindi lo deposita sul Quadro Infinito, una tela di 50×40 che trattiene su di sé tutta la storia di questi anni.
La sua storia, ma anche la nostra; ogni evento occorso negli ultimi quindici anni può essere ricondotto a uno strato del quadro infinito, che ha riportato la traccia del passaggio di quel giorno.
Ogni colore viene inoltre registrato nel suo Diario, una serie di pannelli di legno su cui ogni giorno testimonia il prodotto della ciotola e lo accosta a quello del giorno precedente, anzi che sovrapporlo ad esso. Non è un semplice diario, è un diverso punto di vista della stessa opera.
Se il Quadro Infinito registra la profondità del tempo, il Diario ne registra l’estensione, come fanno gli storici quando con gli occhi dei posteri hanno una visione di insieme di eventi che nel presente non si riusciva a correlare.
Le tavole di legno che formano il Diario sono conservate in un apposito apparato, la Diarioteca, una struttura di metallo che racchiude le tavole passate e quelle future, il cui numero è ciò che secondo i suoi calcoli le resta da vivere.
“Ma è per il presente, non è un memoriale” ci tiene a precisare; il suo non è un lavoro sulla caducità della vita, come le tele in cui Roman Opalka dipingeva i numeri da uno a infinito, partendo dal nero e sbiadendo sempre più il colore che perdeva tono insieme alle sue forze vitali. Le sue opere servono a testimoniare come tutto ciò che facciamo sia in realtà un cercare di lasciare la nostra traccia sul mondo, sia come individui che come comunità.
Se il colore che è scaturito dalla ciotola le comunica qualcosa, lo deposita sulle Sedimentazioni, quadri della durata di due o tre mesi in cui dipinge uno strato alla volta lasciando sul margine superiore la traccia di ogni colore utilizzato.
Trattandosi di un’artista atipica che valorizza il processo di creazione e non l’immagine finale, anche in questo caso è il tempo a determinare quando una sedimentazione può dirsi finita, e non l’equilibrio cromatico.
Il Quadro Infinito ha ora un peso che non potrebbe più essere sostenuto dal semplice cavalletto, sia a livello fisico che a livello spirituale. Maria ci ha costruito intorno una struttura in metallo che lo eleva dallo spazio e lo circoscrive; da un lato gli dà importanza, dall’altro lo protegge.
Accanto si trova un’altra struttura simile, anch’essa con la base in metallo, ricoperta da un tessuto che riproduce una sua opera.
“Contiene i diari di mio padre. Da quando aveva diciannove anni, fino all’ultimo giorno della sua vita, mio padre ha dedicato ogni giorno parte del tempo per trascrivere i propri pensieri. Quelli dei primi anni purtroppo sono andati distrutti. I primi di cui sono in possesso appartengono a qualche anno prima che io nascessi.”
Quando le faccio notare che i diari che è riuscita a reperire e a conservare coincidono quasi perfettamente con gli anni passati insieme le brillano gli occhi :“Hai ragione. Non ci avevo mai pensato.”
Suo padre era un giornalista. Il suo modo di analizzare la realtà e tradurla quotidianamente in parole lo ha tramandato alla figlia, che lo traduce quotidianamente in gesti.
Così come un reporter dopo aver scritto un articolo lo dona alla comunità, che può prendere l’articolo come punto di partenza per informarsi e rielaborare altri pensieri, così le opere di Maria non finiscono quando vengono cedute a un acquirente.
“Quando acquisti una mia opera non importa cosa tu ne faccia. Basta che lo documenti.”
Questo atteggiamento va in controtendenza alla quasi totalità degli artisti contemporanei, che vogliono tenere sotto controllo ogni aspetto dell’opera anche dopo la cessione, come il restauro o le condizioni di esposizione.
Non per Maria, per la quale le opere d’arte non cessano di mutare dopo essere state terminate, e il progressivo reagire all’invecchiamento le rende ancora di più parte del mondo in cui viviamo, in cui niente resta sempre uguale.
Mentre mi accingo a lasciare il suo studio, mi guarda negli occhi e dice sottovoce, con la pacatezza di chi sta pesando le proprie parole “Ancora non ho elaborato il nostro incontro, ma già so che sarà importante per entrambi. Prima devo farlo sedimentare”
Immagine di copertina: Maria Morganti, Stratificazione con rodocrosite rosa e rosa