Come in una fotografia simultanea che mette in scena le relazioni e le solitudini, gli uomini e gli oggetti, Andrea Bajani racconta la vita intera del suo Io e dei luoghi che lo hanno visto abitare, limitrofi e compenetrati gli uni con gli altri, tra abbandono rabbia amori e, perfino, felicità. Con “Il libro delle case” Feltrinelli ha il suo candidato allo Strega.
Se è vero che ciò che siamo oggi, in questo preciso istante, non è che l’esito di tutti i precedenti istanti che abbiamo vissuto, altrettanto vero è che, nel nostro irriducibile divenire, ciò che di noi risulta nel momento presente non è solo l’effetto di una somma: è anche la conseguenza di quello che abbiamo lasciato indietro.
E ciò che è stato – di dimenticato, di abbandonato, di trascorso (volutamente o meno) – lavora in quelli che sono gli strati più profondi del nostro modo di percepire.
Questo è, essenzialmente, lo sguardo che ci induce Il libro delle case, ultimo romanzo di Andrea Bajani, pubblicato per Feltrinelli: una storia che è la storia di una vita, ma che è, contemporaneamente, la storia di tutte le vite. Fatta di relazioni, di legami, di naufragi, di cambiamenti, di una incessante traduzione di eventi in emozioni, di emozioni in percezioni, di percezioni in scelte e, tutto insieme, di memoria.
Per raccontare questo io a identità plurale, Bajani non sceglie la via cronologica del prima e del poi, e nemmeno quella della deduzione o dell’induzione tra generale e particolare. Decide, invece, per una sorta di quadrifonia del racconto: il tempo è sempre presente perché sempre al presente il protagonista esiste nel farsi della sua vita.
È un giovane amante che aspetta un segnale dalla strada per trovare una pace tormentosa e rubata tra le braccia di una donna, è un bambino che impara a gattonare inseguendo una tartaruga, è un figlio che cerca di sopravvivere a una infanzia troppo scheggiata perché la si possa maneggiare senza farsi male, è un uomo ferito e innamorato, è un adulto rimasto solo alla fine di un matrimonio.
Ciò che la vita, nella sua complessità, è, Bajani decide di farla comprendere al lettore del suo romanzo come fosse una sciarada: un enigma del quale il primo elemento è costituito dal luogo (le case, appunto), il secondo è il lembo di emozione che vi è stato provato, la risultante una particella di ricordo, un tassello che contribuisce a restituire il senso di una memoria globale.
Per farlo, i movimenti che lo scrittore compie nei confronti della sua narrazione sono due: di scarto e di ribaltamento.
Io non si traduce infatti in una prima persona singolare (non “io sono”, ma “Io è”), e a rovesciare la prospettiva ci pensano pareti, oggetti, finestre, sulle cui superfici trascorrono eventi e desideri, paure e felicità, che vengono rivelati da un punto di vista scentrato.
Questo dispositivo combinato consente ad Andrea Bajani a un tempo di maneggiare il vissuto del protagonista fin nel suo profondo, nelle ferite più indicibili, e di decostruirlo: nella volontà di un tono neutro, la descrizione che scaturisce non è neutrale, poiché ad ogni pagina si impigliano pezzi di vita che bruciano per sottrazione, per compensazione, per assenza e gli eventi risultano, nella loro nudità, febbrili.
Ogni momento significativo ha la sua casa, ogni ambiente è la scatola che contiene le emozioni scaturite dalle azioni: perciò casa diviene tutto, dalla cabina del telefono alla macchina, dall’anello nuziale all’ascensore – non soltanto stanze, condomini, villini, appartamenti in affitto, case signorili.
La casa del persempre è a struttura circolare, ha la forma e la natura di un anello nuziale. In quanto ritrovato architettonico è tra quelli tecnologicamente più avanzati: scompare dentro un palmo, può stare in una tasca. La misura esatta della Casa del persempre, in cui Io abita felice, è dunque una circonferenza: 7,28 cm, a essere precisi. Il diametro è di 2,37 millimetri. Da vuota, pesa circa 4 grammi. Quando Io ci entra, sono 4 grammi più 87 chili.
È costruita integralmente in oro, il che la rende preziosa e facile agli abbagli. Quando il sole è alto, la Casa del persempre irradia luce tutto intorno. È il suo momento di massima difesa: la luce è lo schermo abbacinante dietro cui Io può riposare. Nessuno potrà mai importunarlo, perché nessun occhio riesce a sostenere tanto abbaglio tutto insieme.
Si aggiungano pochi dettagli sull’interno. Soffitto e pavimento sono la stessa curvatura: non c’è soluzione di continuità tra ciò che sta sopra e ciò che sta sotto. È un unico flusso, è spazio in eterno movimento: ogni millimetro rincorre il precedente, senza una vera intenzione di passarlo. Il futuro è il pifferaio dietro cui sfila ogni minuto già trascorso.
Se le cose (e le case) racchiudono il segreto dei sentimenti che vi sono stati fatti agire, esse sono anche il luogo in cui si frangono i rapporti più intimi, e si consuma insieme la frattura tra generazioni (il Padre e la Nonna, ma anche il Padre e Io) e il rapporto sbilanciato ossessivo maschilista di Padre con tutte le figure femminili della sua vita, in particolar modo quelle connotate dall’affettività più intima e, per questo, maggiormente negata.
Così, dentro Il libro delle case, i brevi squarci di paesaggio fuori dalle stanze altro non sono che l’amplificazione, la quinta di ciò che accade dentro: in massimo grado nella casa di montagna, intorno alla quale tutto il paesaggio si rifà strenuamente al campo semantico della chiusura – cipressi ciminiere cimitero campo coltivato – in un crescendo di claustrofobia proporzionale al dominio esercitato dal controllo paterno nei confronti di tutti i membri della famiglia e (possibilmente) della loro individuale volontà.
L’assenza del telefono è la barriera contro cui si scontrano le chiamate di Nonna e di Parenti. È il luogo dentro cui Padre ha murato la famiglia di Io.
Murata viva, la famiglia sta al sicuro.
Padre può riposare tranquillo quando vuole.
Madre mette da parte il resto della spesa per chiamare.
In una successione di cronotopi giustapposti, la vita minima dei membri della famiglia di Io si sviluppa in una contemporaneità di luoghi e di oggetti: un paradigma di microstoria nel quale gli ambienti rivelano la connotazione sociale, le aspirazioni, il passato, le macerie, le rivincite e persino l’intimità più minuta.
Ogni nucleo è in profondità franto dai singoli e dalle singole crepe (una famiglia messa insieme con pezzi di solitudine e di scarto), e attraversato in varia misura dagli eventi della macro Storia: due delitti, l’omicidio di Aldo Moro e l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, (non a caso, due episodi che hanno inciso la memoria di una intera generazione), fanno irruzione con dissonante violenza attraverso la decifrazione che gli dà ogni volta uno sguardo individuale.
Anche in questi squarci sul contemporaneo, la penna di Andrea Bajani registra la sismografia dei segni, e alla loro personificazione lascia il compito di tracciare alcuni tra i momenti più intensi del romanzo:
dove muoiono gli uomini sorgono alberi in cemento: la terra si prende i corpi e restituisce calcestruzzo. È così che l’albero in cemento cresce in verticale, senza l’aiuto di nessuno, senza bisogno di essere bagnato.
Da cosa deriva, in definitiva, la tensione che avvolge il protagonista nell’alone di ombre ben percettibili fin dalla prima pagina? Null’altro che ciò che ognuno di noi teme per la propria stessa esistenza: fallire – e, ancor più, fallire nelle stesse modalità che si ha già imparato a detestare.
Ancora una volta è lo spazio a parlare, poiché le case contengono, costringendola in contiguità, la vicinanza dei corpi, ma spesso anche la lontananza della volontà individuale e del suo sentire.
Ed è, questa, la perenne minaccia, l’infinita incerta battaglia del persempre, che lascia sguarniti i suoi pedoni, quand’anche siano mogli innamorate, di fronte alla percezione del tempo del distacco.
Ma giorno dopo giorno quello che può fare è solo tentare di decifrare lo sguardo che Io porta a tavola per cena. Cercare di capire se l’irreparabile è già avvenuto, se da qualche parte è rimasto ancora uno spazio per lei. O se Io si è già trasferito altrove, e a casa torna solo per dormire.
Andrea Bajani ci pone insomma di fronte con questo libro (giustamente candidato al Premio Strega) a una sorta di fotografia simultanea che mette in scena le relazioni e le solitudini, gli uomini e gli oggetti: limitrofi e compenetrati gli uni con gli altri, tra abbandono rabbia amori e, perfino, felicità; il tutto sotto gli occhi dell’unico personaggio immutabile (il più struggente dell’intero romanzo): una tartaruga che tutto vede, tutto attraversa e nulla può; l’unica ad assistere al congedo di Nonna dalla sua esistenza mortale, l’unica a contenere nel suo silenzio il filo di tutte le storie, le conclusioni, gli inizi e i nodi.
E che forse non a caso, tra i suoi significati simbolici, ha proprio quello di forza nascosta.