Vita sfarzosa e miserie private di un magnate della gomma alle soglie della fine dell’impero britannico: “La presa di Singapore”, pubblicato da Neri Pozza, chiude la trilogia che ha consacrato James Gordon Farrell come uno dei più importanti scrittori inglesi del Novecento .
La presa di Singapore di James Gordon Farrell è un grande affresco storico, un romanzo, una saga, un manuale di strategia militare, uno studio sociologico, economico, psicologico sul crollo dell’Impero Britannico in Oriente e del suo dominio coloniale.
Forse il modello di J.G. Farrell è addirittura Guerra e pace di Lev Tolstoj, naturalmente ineguagliabile e forse obiettivo troppo ambizioso, ma la tensione di un’epoca intera si sente tutta nelle pagine di questo romanzo pubblicato da Neri Pozza.
A voler leggere in modo semplicistico e polarizzato La presa di Singapore, la luce più cattiva è quella che cade sui giapponesi che invadono, massacrano, occupano: tuttavia non riusciamo a riconoscere come buoni gli inglesi, perché la popolazione locale è intensamente e visibilmente sfruttata, depredata delle sue ricchezze in cambio di un progresso che arricchisce solo i colonizzatori.
Il pregio di J. G. Farrell è quello di scrivere la Storia e le storie individuali da diversi punti di vista: quello della vecchia classe delle grandi case mercantili, quello dei figli che deludono le sue aspettative, quello di generali, di governatori e delle truppe di occupazione britannica, quello dei francesi di tutte le classi sociali fuggiti dal Vietnam, insieme agli impiegati, ai piccoli contadini, alle prostitute e alle fanciulle dell’alta società.
La tragica storia de La presa di Singapore comincia nel 1937.
Il protagonista del romanzo, Walter Blackett, presidente dell’illustre casa mercantile Blackett and Webb Limited, leader nella produzione e commercializzazione della gomma tra le sue molteplici attività, non ha fatto che incrementare il suo impero anche nel ventennio dopo la grande Guerra, ma ora comincia ad avvertire la crisi.
Discutendo col generale Brooke-Popham, comandante in capo delle forze britanniche, sostiene in modo scoperto quello che è il suo pensiero, perfettamente allineato alle logiche nazionaliste del colonialismo.
Da uomo d’affari capisco benissimo come mai i giapponese nel 1937 siano stati costretti a invadere la Cina. Dal punto di vista dei traffici commerciali e degli investimenti era un paese instabile. Nessun uomo d’affari minimamente navigato, osservando la Cina nazionalista, avrebbe colto segnali tranquillizzanti. Il Kuomintang voleva mettere fine ai privilegi degli stranieri, voleva che le concessioni di Shanghai, Tientsin e via dicendo venissero restituite al paese. Voleva impedire agli stranieri di avere i loro tribunali e di imporre tasse sempre più alte sul suolo cinese. No, gli affari dovevano andare avanti a qualsiasi costo, e un uomo d’affari ha bisogno di sicurezza. Perciò possiamo davvero biasimare i giapponesi?
Insomma, appellarsi alla giustizia o al diritto è irrilevante di fronte alla necessità di procurarsi materie prime. Le nazioni forti sopravvivono, quelle deboli escono dal mercato: nella logica determinista è sempre stato così e sempre lo sarà.
Il controcanto, di fronte al cinismo di Blackett, è il razzismo di Brooke-Popham:
Il motivo per cui i giapponesi sono così suscettibili e arroganti è che mangiano troppo pesce. È stato dimostrato scientificamente. Lo iodio presente in dosi massicce nella loro dieta mette a soqquadro la tiroide. Non possono farci niente, quindi non credo si possa biasimarli, no.
Un esempio tra i tanti del prisma dalle mille facce e dai molteplici risvolti paradossali con cui James Gordon Farrell guarda al mondo di Shanghai è anche uno dei momenti più forti di tutto il romanzo, ed è insieme la metafora dello scollamento della visione capitalista dalla realtà dei molti e l’allegoria della fine dell’impero britannico: si tratta della descrizione dei preparativi della sontuosa parata per celebrare il cinquantenario della società Blackett and Webb, sotto lo striscione ‘Continuità nella Prosperità’, ‘Cinquant’anni di prosperità per i lavoratori di tutte le razze’, durante la quale sarebbero sfilate decine di carri allegorici di cartapesta.
Il maggiore dell’esercito amico del magnate aveva pazientemente aspettato che la gravità della situazione di Singapore mettesse fine una volta per tutte a quella pagliacciata. Nonostante i bombardamenti dei giapponesi, mezza città in fiamme, scioperi e diserzioni dei lavoratori, però, il progetto diventa sempre più faraonico nella mente di Walter Blackett.
Su un carro che recava un’immensa cornucopia escono una quantità di oggetti fatti di gomma – la materia prima di cui il magnate aveva quasi il monopolio – si intravvedono pneumatici di ogni forma e dimensione, copertoni di bicicletta, camere d’aria, scarpe e stivali, guanti, cappelli, cuscini, palloncini, cinture. A questa magnifica serie il figlio scapestrato di Blackett, che sovrintendeva alle maestranze, per scherzo cerca di aggiungere una scatola di contraccettivi: motivo scatenante di una scenata spaventosa da parte di suo padre.
Ma quella folle parata sarebbe presto finita come tutta Shanghai e tutto l’Impero Britannico sotto i bombardamenti giapponesi.
Si conclude così la Trilogia dell’Impero, iniziata con Tumulti e proseguita con L’assedio di Krishnapur: trilogia che ha fatto di J. G. Farrell uno dei più acclamati e importanti scrittori inglesi del Novecento.