Esce in una nuova edizione de La nave di Teseo il testo fondamentale del grande critico Giacomo Debenedetti dedicato alla deportazione degli ebrei di Roma, accompagnato da un altro suo scritto,
dalla nota di Mario Andreose e dalle parole di Ginzburg, Moravia e Piovene
«Fino a poche settimane fa, ogni venerdì sera, all’accendersi della prima stella, si spalancavano tutte le grandi porte della Sinagoga, quelle verso la piazza del Tempio. Perché le grandi porte, invece delle bussole laterali e un po’ recondite come tutte le altre sere? Perché invece degli sparuti candelabri a sette bracci, quello sfavillare di tutte quante le luci, che traeva fiamme dagli ori, splendore dagli stucchi – gli stemmi di Davide, i nodi di Salomone, le Trombe del Giubileo – e sontuosi bagliori dal broccato della cortina appesa davanti all’Arca Santa, all’Arca del Patto col Signore? Perché ogni venerdì, all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del Sabbato. Non la macilenta salmodia del cantore sperduto sul lontano altare; ma dall’alto della cantoria, nella romba osannante dell’organo, il coro dei fanciulli gloriava un cantico di sacra tenerezza, l’inno dell’antico cabbalista, “Lehà Dodì Lichrà Calà“: Vieni, o amico, vieni incontro al Sabbato… Era il mistico invito ad accogliere il Sabbato che giunge, che giunge come una sposa. Giungeva invece nell’ex-Ghetto di Roma, la sera di quel venerdì 15 ottobre, una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi, l’agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca. È venuta da Trastevere di corsa. Poco fa, da una signora presso la quale va a mezzo servizio, ha veduto la moglie di un carabiniere, e questa le ha detto che il marito, il carabiniere ha veduto un tedesco, e questo tedesco aveva in mano una lista di 200 capi-famiglia ebrei, da portar via con tutte le famiglie».
Giacomo Debenedetti (1901-1967), il massimo storico della letteratura e critico del nostro Novecento assieme a Gianfranco Contini, racconta la deportazione degli ebrei romani, è stato detto, con la classica nobiltà con cui Manzoni redasse la Storia della Colonna Infame, con cui Defoe scrisse della Peste di Londra. Fa la cronaca di una pestilenza morale. «Non possiamo fare a meno di ammirarne la straordinaria forza dello stile, trasparente come il vetro. Sembra che a parlare, nel racconto di Debenedetti, sia la stessa realtà. Le frasi si susseguono, alte, nitide, disadorne, severe, e su ciascuna di esse grava il peso d’una pietà immensa. Al modo dei rintocchi d’un orologio, suonano le parole che portano all’implacabile conclusione», ha scritto Natalia Ginzburg. Pietà e dolore. E un’apologia del ghetto romano sorpreso dai lupi come un gregge di agnelli. Gli ebrei creature diurne, anche se l’iconografia dell’antisemitismo li ha raffigurati a tramare nell’oscurità. Gli ebrei ingenui come bambini, a smentire una consolidata fama di diffidenza: e infatti credono di essere al sicuro dai nazisti perché soltanto un mese prima hanno pagato a Herbert Kappler una taglia di cinquanta chili d’oro. E infatti non prestano fede all’allarme lanciato da Celeste, la donna dai capelli scarmigliati.
Una bella pagina ricorda l’aiuto della città: «Ormai tutta Roma aveva saputo del sopruso tedesco, e se ne era commossa. Guardinghi, come temendo un rifiuto, come intimiditi di venire a offrir dell’oro ai ricchi ebrei, alcuni “ariani” si presentarono. Entravano impacciati in quel locale adiacente alla Sinagoga, non sapendo se dovessero togliersi il cappello o tenere il capo coperto, come notoriamente vuole l’uso rituale degli ebrei. Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro… se sarebbe stato gradito… Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili. Torna a mente, e par bella, una parola ripetuta anche da George Eliot: il latte dell’umana bontà». Ai nazisti l’oro non basta. Viene razziata la Sinagoga, vengono rubati i codici preziosi della Biblioteca del Collegio Rabbinico, con un paleografo in divisa delle SS a capo dei ladri. Poi tocca alla popolazione. Sorpresa in un’alba livida, caricata a bordo dei camion, ammassata nel Collegio Militare, poi condotta a Roma-Tiburtino e stivata su carri bestiame.
«Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa».
Scritta nel novembre 1944, a guerra non ancora conclusa, la cronaca della deportazione del Ghetto termina qui. Due mesi prima, nel settembre 1944, Giacomo Debenedetti aveva scritto invece Otto ebrei, un pamphlet pacato ma tagliente come una lama, definitivo come una condanna che non prevede appello. Lo spunto polemico era stato offerto dal processo a un commissario di PS, Raffaele Alianello, incaricato di verificare le liste degli uomini destinati alle Fosse Ardeatine e di radunarli per il massacro. Per difendersi, per costruirsi un attestato di benemerenza che attenuasse il suo ruolo di aiutante del boia, Alianello aveva raccontato di aver fatto cancellare, tra i dieci nomi in soprannumero della lista, otto ebrei e due nomi scelti a caso.
Debenedetti è implacabile nello smascherare il voltagabbana: «Occorre dar subito, dare abilmente, tra le righe, la prova provata, palmare che, mentre i cattivi collaboravano coi ‘nazifascisti’, noi eravamo invece tra i buoni. Ma il problema, in fondo, è semplice. Quello che ieri era nero oggi è diventato bianco, e viceversa. Qual era, sul cartellino segnaletico del fascismo, il connotato più caratteristico? Quali le impronte digitali del fascismo? Diamine, la persecuzione degli ebrei. Quale, di conseguenza, il più incontrovertibile connotato dell’antifascismo? La protezione degli ebrei. I fascisti, quando comandavano loro, deploravano: peggio, punivano il pietismo verso gli ebrei. Mostriamo di esser stati pietisti, di avere avuto questo coraggio, e risulteremo senz’altro iscritti, iscritti d’ufficio, senz’ombra di contestazione, nei ranghi dell’antifascismo. Dài, giovinotto, attàccati agli ebrei, tutto fa brodo, anche la carne sbattezzata». La conclusione di Debenedetti è perentoria: la persecuzione continua. È diventata, se così si può dire, “congiura dell’amore”. Scrive il grande critico: «Un aperto e umanissimo scrittore ha bollato la mostruosità delle leggi razziali, osservando che esse colpivano “non le azioni responsabili delle creature umane, ma il delitto di essere nati“… Pace ai nostri morti. Ma i vivi, che non capirono e non capiscono il perché della persecuzione, è giusto che si allarmino oggi di un’indulgenza altrettanto regalata. Questo di chiudere tutti e due gli occhi, di creare eccezioni a vantaggio degli ebrei, non è un modo di riparare dei torti. Riparazione sarebbe rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane, e non già appartarnerli, sia pure per motivi benigni. Questa è una antipersecuzione: dunque, fatta delle medesima sostanza psicologica e morale che materiava la persecuzione. Se prima negli ebrei si puniva l’ebreo, oggi al vedere la situazione, non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo. E il perdono richiama l’idea di una colpa, di un trascorso».
I due magistrali scritti di Giacomo Debenedetti hanno avuto vasta e meritata fortuna e, nel tempo, ripetute edizioni. Oggi li ripubblica, in un’edizione benemerita e che si vorrebbe definire definitiva, La Nave di Teseo. Con una nota editoriale emozionata di Mario Andreose, che sessant’anni fa sovrintese alla pubblicazione dei testi nella Biblioteca delle Silerchie del Saggiatore (per il ritratto, ricco di affetto e calore, del Debenedetti redattore e curatore editoriale, rimando al bellissimo Voglia di libri che Andreose ha dato alle stampe nel 2020). E con i testi di Natalia Ginzburg; di Alberto Moravia che rievoca il terrore di quegli anni che aveva costretto gli ebrei, anche lui, a regredire allo stato biologico, come un branco assalito dai predatori; e di Guido Piovene che, in un breve testo che gli fa onore, dice il rimorso perenne e la vergogna per il suo antisemitismo giovanile (della vicenda, che lo portò a rompere l’amicizia con il filosofo e combattente antifascista Eugenio Colorni, assassinato nel 1944 a Roma dalla banda Koch, ha scritto Alberto Vigevani in Milano ancora ieri, Sellerio). Completano il volume la copertina originale di Alberto Savinio e i ritratti di Debenedetti di Felice Casorati e Carlo Levi. Un libro indispensabile, da leggere e rileggere e meditare.