“Gli affamati”: Mattia Insolia tra distruzione e vertigine.

In Letteratura

Il vuoto, l’assenza, la mancanza. Nel romanzo di Mattia Insolia, pubblicato da Ponte alle Grazie, la famiglia diventa luogo di legami distorti, incubi, perdite: polverizzato ogni equilibrio, la ricerca di appagamento è malattia e il desiderio una ossessione.

Fame è insufficienza, mancanza, desiderio. Tutto, ne Gli affamati di Mattia Insolia, appare incrostato di una qualche ruggine animale, di un logorio che calcifica il tempo in ripetizioni tutte uguali. È la vita, questa, di Paolo e Antonio, due fratelli che vivono giorni che si accumulano, insensati, per costituire una esistenza innaturale. Quando la famiglia appare un concetto così distante, ecco che il legame tra i due diventa un mondo autosufficiente, che si carbura delle proprie scorie e che tenta di acquisire una legittimità negata.

Antonio avrebbe voluto abbracciarlo. Stringerlo a sé per trovare un equilibrio. Un punto di mezzo tra il vuoto e la saturazione. Lo guardò a lungo, pregando che capisse e che acconsentisse. Poi, senza dire una parola, capo chino e braccia penzoloni, andò in bagno.


Paolo aveva fatto bene, a fare quello che aveva fatto. Lui non ne avrebbe avuto il coraggio, ma era stata la cosa giusta.

Paolo e Antonio hanno subìto il lutto del padre, un parricidio che perde qualsiasi significato simbolico o epico o mitico, uno svilimento dell’assassinio dostoevskiano, un corpo che muore e sparisce, che non tormenta. E subiscono anche l’abbandono della madre, una donna travolta dall’esigenza di un riscatto che tenta di rimediare ai propri errori, ma senza possibilità concreta, senza quell’intenzione profonda che potrebbe portare a un risultato preteso.

I due giovani hanno fame di quello stesso riscatto tentato dalla madre. Soli, in una casa che appare più un tugurio, un’abitazione fatta di piatti sporchi, vestiti accumulati e sudici, mobili ammassati con sdraio al posto del divano, pareti che dividono e allo stesso tempo uniscono, i due cercano di bastare a sé stessi, frammentandosi tra la voglia di divertirsi e l’obbligo di provvedere alla loro vita. Paolo e Antonio cercano il riscatto nella vita quotidiana, nel pensare ad un futuro lontano da quelle strade così tanto distanti dalla loro esistenza, nel cibo che conforta, nel sesso che non appaga ma che fa sfogare una rabbia che, dentro, distrugge e ricompone gli organi in un movimento senza fine.

Non esistette niente. Fu oblio.

La sua bocca, il suo profumo, il suo calore. Paolo sentiva ogni cosa, vivo per la prima volta. Gli passò una mano dietro la nuca e lo tirò a sé, desideroso di averlo dappertutto. Avrebbe voluto che fosse parte di lui, come una cosa sola. Gli prese la faccia tra le mani e gli affondò la lingua in bocca. Con le dita gli percosse il collo. Gli afferrò i capelli e tirò. Si mise sulle ginocchia e gli si avvinghiò, braccia e gambe. Gli accarezzava la schiena, gli schiacciava il ventre sul petto.

Convive, insieme a questa fame di riscatto, anche quella del vuoto. Paolo e Antonio si trascinano nella vita come animali, nulla viene sentito come qualcosa che valga la pena di vivere. L’amicizia sembra avere una consistenza, ma poi si perde nell’insensatezza. Il rapporto con l’altro diventa una scusa per mettere in pausa il cervello, niente di più. Il vuoto riempie tutto ciò che li circonda e solo l’abbraccio fraterno, solo la loro interdipendenza, solo la loro casa sembrano acquisire un significato che può avere un qualche valore inavvertito. Paolo e Antonio questo lo sanno, e sembra in qualche modo che, nel profondo delle loro anime maciullate, bramino quel vuoto che tanto contraddistingue la loro vita. Hanno fame di quel vuoto, perché senza questo non potrebbero considerare il loro legame come l’unico elemento valido per confidare nella loro sottospecie di verità.

Superò il cane e accostò. Non appena scese dall’auto la bestia gli si fermò davanti. Si misuravano a vicenda a un paio di metri di distanza. Strada deserta, ai lati si stendeva la campagna sotto il sole che moriva. Il silenzio di piombo era crepato solo dal frinire delle cicale. Doveva farlo salire in macchina. […] In una mano teneva la benzina, nell’altra l’accendino. Paolo sapeva di doverlo fare. Di volerlo fare. Ma non sapeva perché. Per mettere ordine nel mondo, si ripeteva in testa. Rimase fermo a lungo. Poi agì.

La fame di vuoto trova l’affermazione nel suo opposto, nella fame del pieno, di amore, di sentimenti, di tocco, di pienezza. I due fratelli ricercano, ossessivamente, un qualsiasi tipo di contatto umano, che passi dall’amicizia, dai parenti, da un rapporto sessuale, dalla violenza, dalla masturbazione. Essere costretti a crescere prima del tempo è una forzatura che lascia un vuoto da riempire continuamente, e niente mai basterà, né l’ipotesi di un futuro, né il contatto fugace con qualcuno da amare, né il sentimento di rabbia. Perché riempire un vuoto che non ha una fine è un’impresa impossibile. Ci sarà sempre qualcuno che appare migliore, sempre qualcuno amato di più, desiderato di più, e ciò che si rincorre, l’emulazione senza armi, senza mezzi, di un mondo vicino e irraggiungibile, è la frustrazione più grande per chi è abituato a vivere di macerie.

Mi sento più leggero, ma non sono né felice né soddisfatto. Qualcosa mi zavorrava, e adesso che questa storia si è conclusa quel peso non c’è più, ma non sto come pensavo sarei stato. È una vittoria, la nostra, ma è come se non potessi inghiottirla. Come se continuassi a tenerla in bocca, a masticarla senza ragione. Il fatto è che non riesco ad andare avanti. Ho cambiato tutto. Ho cambiato vita, ho cambiato piani. Ho cambiato il presente e il futuro, ma il passato resta quello che è, e ha gli artigli lunghi.

E qui si inserisce l’ultima fame del libro. La fame della fine, una fine preannunciata dalle prime pagine della storia, una fine desiderata, che mette a tacere il riscatto, il vuoto, il sentimento, la vita tutta. Non è facile procurarsela, la fine, ma Paolo e Antonio utilizzano tutto ciò che hanno per provocarla questa fine, per avvicinarla alle loro energie vitali e causare lo spegnimento di un ritmo dissestato, che li allontana dal fluire naturale di ciò che vortica intorno a loro.

Gli affamati è la storia di una vita al limite e da lettori non facciamo in tempo a raccogliere i cocci di una pagina che subito, con un’esplosione non annunciata, ci ritroviamo con le mani polverizzate. C’è un domani, in fondo alla fine, spezzato, logoro, smussato, ma che è pur sempre un domani.

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