Arte e potere. Marija Judina, che sfidò Stalin con un pianoforte

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La grande pianista, assidua frequentatrice dei maggiori dissidenti dell’epoca, dalla Achmatova a Šostakovič, non esitò ad attaccare con severità il dittatore. Ciononostante Stalin che la ammirava profondamente ne sopportò per tutta la vita lo spirito critico. “Complice la notte” di Giuseppina Manin racconta la vita avventurosa della musicista, donna libera e forte, artista venerata e temuta


Non poterono ventisei milioni di morti, lei sì. Le lacrime di migliaia di madri, mogli e figlie, le lettere al boia, le confessioni estorte, le lettere dei deportati potevano soltanto sognare di aprire un varco nell’anima della Guida suprema – se un’anima aveva quell’uomo -, che per lei era una porta spalancata, senza chiedere, senza fare nulla che non fosse vivere la sua vita. Marija Veniaminovna Judina, musicista libera e donna forte come nessuno, pianista venerata e temuta, s’era insinuata nella testa e nel cuore di Iosif Vissarionovič Džugašvili semplicemente suonando Mozart, in incognito. Le lacrime che nessuno vide e avrebbe mai visto negli occhi di Stalin – nell’intimo, anche vere – Marija le aveva strappate spremendo dolcezze inaudite dall’Adagio del Concerto K 488

Lo strano avvenimento – direbbe Da Ponte –, simbolo del rapporto arte-potere, è il capitolo primo di una vita estrema, santa e disperata, che oggi riaffiora in un libro, Complice la notte, che Giuseppina Manin confeziona come “romanzo” per Guanda (225 pagine, 18 euro), perché un romanzo di emozioni folgoranti è la vita di Marija Judina.

La mia vita per un Adagio
Si racconta – ma ne fa fede Dmitri Šostakovič, uomo e musicista non abituato a giocare con la verità – che una notte del 1944 Stalin, solo come soltanto i potenti riescono ad essere, si era messo in ascolto di Radio Mosca. Quel Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, soprattutto l’Adagio, suonato in quel modo, lo aveva lasciato senza respiro. Alzato il telefono con cui decideva di vita e di morte, al funzionario atterrito chiedeva per la mattina seguente la registrazione di quella sera. Ma nessuna registrazione era stata fatta. Panico.
C’era un solo modo per evitare la tragedia, tante tragedie: rifare tutto da capo e confezionare il disco nella notte.

Orchestrali e tecnici vengono tirati giù dal letto. Le auto a disposizione corrono a prelevare i più lontani. Qualcuno arriva in pigiama. Il direttore trema di paura e si tira indietro: se Stalin si accorgesse? Non c’è alternativa. Viene convinto un altro maestro a prendere in mano la bacchetta, Aleksandr Gauk. L’unica a conservare sangue freddo, pur disgustata dall’idea di suonare per l’uomo delle tenebre, è Marija Judina. Le sue mani non hanno paura, la forza e la luce che sanno scatenare sono le stesse.

L’Adagio ne esce ancor più struggente e metafisico, quasi un monito del Dio in cui lei, ebrea convertita, ha fede incrollabile, e il compagno Iosif Vissarionovič ostenta di non credere. Deve non credere. La gommalacca è pressata, il disco infilato in una busta, accompagnato dai più profondi inchini di tutti. La mattina dopo è sul tavolo di comando nel mazzo della posta che il servo ben istruito del Capo accuratamente divide in “generi”. Spicca, la busta, con quel qualcosa di rigido dentro. Ah, il disco, ricorda Stalin, e non resiste. L’ascolta subito. Suona ancora più struggente l’Adagio. La pianista, come si chiama, Marija Judina, sa toccare le corde segrete che l’uomo non può nemmeno confessare. Merita un premio. Dal cassetto Stalin estrae ventimila rubli, cifra enorme, con cui nella Russia stremata dalla guerra si può comprare di tutto. E, ancora più incredibile, la Guida suprema prende carta e penna per scrivere una lettera di quasi umile accompagnamento:

Due lettere
“Marija Veniaminovna, 
voglio esprimerle la mia ammirazione per la sua magnifica esecuzione del concerto di Mozart alla radio. Conserverò con cura la registrazione discografica che mi è stata recapitata. Voglia gradire un piccolo segno di gratitudine per la sua arte. 
Iosif Stalin”.

Il denaro, Marija non lo terrà per sé, come sempre: per tutta la vita devolverà ad altri, umani o gatti, quel che riterrà superfluo per sé; molto, quasi tutto quel che guadagnerà in una carriera solo a tratti luminosa e fortunata. E segue risposta al compagno Stalin, che da sola racconta quel che una delle più grandi pianiste della scuola russa era come donna, come artista e come figlia della Santa Madre Russia.

“Iosif Vissarionovic,
vi ringrazio per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del Paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Quanto al denaro, l’ho dato alla chiesa che frequento.
Marija Veniaminovna Judina”.

Per molto meno si moriva in un campo di lavoro. Marija Judina, no. Fino a quando la Guida suprema non esalerà l’ultimo respiro, nove anni dopo, pur tenuta in sospetto e a distanza, rimarrà la pianista preferita da Stalin. L’espulsione dai conservatori in cui insegnava, amatissima e invidiatissima, le umiliazioni e le sofferenze non le verranno risparmiate, non per emanazione diretta dal vertice del potere, ma come destino inevitabile per una donna mossa da volontà ed etica incrollabili, credente nella Russia laica, fedele alle amicizie che l’Apparato sanzionava come nemiche del popolo, da Anna Achmatova a Boris Pasternak, da Sergej Prokof’ev a Dmitri Šostakovič.

La Notte che sta nel titolo del libro di Giuseppina Manin è dettata da Judina stessa, dal suo amore per Leopardi, che lei legava a Chopin perché “fratelli nell’anima”: “il più musicale dei poeti e il più poetico dei compositori uniti dall’incanto e dall’enigma della notte”. Insegnava questo Marija Judina agli allievi che l’adoravano, a dai quali fu più volte separata con la forza perché pericolosa “propagandista religiosa”, amica di compositori che facevano musica “falsa, volgare e patologica” (Zdanov).   

Una vestale nera
Dalle pagine di Complice la notte ci viene incontro l’immagine di una strana vestale in nero, capelli e vestiti, per i meschini patetica nelle sue scarpe da tennis, ma per tutti misteriosa e magnetica. Figura concreta di una narrazione che tiene stretti, dispensa notizie, ambienta luoghi e tempi, evoca lo spirito di una parte della storia russa che ancora fatichiamo ad afferrare in tutto il suo sterminato e dostoevskiano dolore.

Marija Judina era nata nell’ultimo anno dell’Ottocento, secolo dal quale aveva ereditato la disposizione ad appropriarsi dei classici come cosa propria, assoluta, possessiva. In tutto il resto figlia del Novecento, aveva sentito il dovere etico ed estetico di dare voce, alla pari, al suo tempo. “Io passerei la vita ad ascoltare e a suonare Bach, ma devo, dobbiamo suonare questa musica contemporanea, perché è un grido di disperazione. E la disperazione è il primo passo sulla soglia del pentimento”. Aveva in Johann Sebastian il suo dio; teneva Mozart, Beethoven e Chopin come stelle fisse, e Musorgskij naturalmente, nei cui Quadri da un’esposizione sentiva battere il cuore del popolo. Ma non poteva tradire i colleghi e amici dei quali condivideva la vita fatta di stenti, avvelenata dalla certezza di essere seguiti, scrutati, appesi a un laccio. Non esitò mai a rischiare la censura per eseguire Prokof’ev e Šostakovič, ed europei eretici come Webern e Hindemith. Fu amica di Luigi Nono, accolse come una divinità Stravinskij quando tornò in Russia coperto di gloria internazionale, pur delusa dall’uomo visto da vicino, imbevuto di molto sussiego e molto alcol. 

E un’arancia meccanica
Prokof’ev simboleggia il rapporto tragico, in Russia, fra arte e potere. Morì nello stesso giorno di Stalin, il 5 marzo 1953, ma il suo corpo dovette sostare due giorni a casa prima di essere avviato, quasi di nascosto, al cimitero: nessun funerale era tollerato nella capitale impazzita per l’ultimo saluto al primo di tutti i compagni. Due misere righe segnalarono la morte di colui che, scelto da Djagilev come secondo Stravinskij per i Ballets Russes, rinunciò a una carriera internazionale, si illuse di poter tornare in Russia come primo fra i grandi e venne messo in un angolo prima che il tempo lo sistemasse al suo posto nella storia della musica russa. 
Dmitri Šostakovič assaggiò a più riprese i metodi di pubblica condanna del sistema repressivo organizzato con precisione orologiaia da Stalin – che amava Marija Judina, ma quando eseguiva Mozart –, visse di stenti e umiliazioni, fu costretto ad aspettare la morte del Capo per poter alzare la testa.    Quattro anni prima di lui, nel 1971, Marija Judina chiuse i suoi giorni in miseria, dimenticata, senza nemmeno i soldi per riparare un vetro della sua povera casa immersa nella natura.

Alla fine del “romanzo” di Giuseppina Manin è impossibile non tornare a tormentarsi sul mistero che avvolge il malsano rapporto fra musica e potere. 
Corrono brividi lungo la schiena nel rivedere Wilhelm Furtwaengler che dirige la Nona di Beethoven davanti al Führer, a Goebbels, a Himmler gonfi di emozione, grati al maestro, generosi nell’applauso. 
Fu folle o veggente Stanley Kubrick quando associò la marcetta della Nona all’eros violento di Max – Malcolm McDowell in Arancia meccanica?  (E invochiamo una combinazione di astri nel ricordare che il film uscì nel 1971, anno della morte di Marija Judina).

L’Adagio della Settima Sinfonia di Bruckner aveva su Hitler un effetto irresistibile: lo faceva piangere. Al compagno Stalin venivano gli occhi lucidi ad ascoltare il Mozart “di” Marija Judina. 

Dov’è la chiave?  Scriveva Ernest Hemingway, che non era un intellettuale, ma la vita non se l’era lasciata scorrere addosso: “di giorno puoi fare il superiore su molte cose, di notte no”.  
Forse il mistero del fremito indecifrabile che fa vibrare il cuore di assassini insensibili al dolore e alla morte che hanno goduto a infliggere, abita qui: nei brandelli di vita in cui, rientrati in sé stessi, anche i geni del male sono costretti ad accettare la vulnerabilità che nessuno esclude, complice la notte. 

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