Al Maggio musicale fiorentino fino all’8 luglio con la sua Accademia Bizantina, il direttore d’orchestra pugliese esperto di musica barocca ci spiega perché il capolavoro di Monteverdi getta le basi dell’opera moderna
A detta di Ottavio Dantone, Il ritorno di Ulisse in patria è la più bella opera che sia mai stata scritta. In assoluto, non solo tra quelle di Monteverdi. Fino all’8 luglio la dirigerà al Teatro della Pergola con la sua Accademia Bizantina, in una nuova produzione del Maggio con regia niente meno che di Robert Carsen, con cui Dantone ha già lavorato in diverse produzioni, tra cui il monteverdiano Orfeo a Losanna nel 2016.
Qui siamo molto lontani dalla corte di Mantova dove andò in scena L’Orfeo: Il ritorno di Ulisse in patria è stato composto più di trent’anni dopo, per un teatro
Ed è proprio la committenza che determina le differenze maggiori tra le due opere. L’ascoltatore è cambiato: non si tratta più di un’occasione riservata come per L’Orfeo. Da un punto di vista sia emotivo sia retorico l’opera non è più rivolta a una cerchia ristretta.
In che senso la considera l’opera più bella di Monteverdi?
Sarà perché tra quelle che ci sono rimaste è l’unica completamente di Monteverdi. Quest’opera incarna perfettamente il passaggio verso una nuova concezione del teatro: l’equilibrio tra recitar cantando e ariosi, tra forme chiuse e parti strumentali è mirabile, e l’espressione degli affetti è pensata per coinvolgere un pubblico ampio. L’Orfeo in fondo è ancora una proto-opera. Il ritorno di Ulisse in patria getta le basi per lo sviluppo dell’opera moderna.
Nell’opera ci sono evidenti differenze di registro tra i personaggi, a seconda di quello che vogliono esprimere e più ancora a seconda del loro rango. È solo retorica vocale o vera e propria drammaturgia musicale?
Direi entrambe le cose. La retorica vocale si vede in certe soluzioni che si ripetono: intervalli e figurazioni, l’uso di madrigalismi per imitare situazioni reali. Sono tutti aspetti strutturali che a partire da quel momento formeranno il gusto del buon comporre. Ma da un punto di vista drammaturgico ci sono raffinatezze incredibili: si pensi a come cambia Ulisse da vecchio mendicante a eroe, o all’ubriacone Iro, o ancora ai tre Proci che attraverso la loro differenziazione vocale esprimono tre tipi diversi di virilità, una femminea nel registro di contralto, una di tenore più centrale, e infine il basso con un atteggiamento musicale da playboy. Il miracolo di questa musica è che riesce a essere chiarissima nonostante dia pochissime indicazioni di organico, di strumentazione e di dinamica, che in pratica sono assenti, come i numeri per l’armonizzazione del basso. Ma basta studiare con attenzione il modo in cui Monteverdi accosta le parole e la musica.
È questo il recitar cantando?
Che in sintesi significa recitare sulla base di valori scritti che non vanno cantati esattamente in quel modo, bensì all’interno di un ritmo preciso che si chiama “tactus”. Il recitar cantando deve dare l’impressione di essere assolutamente libero rimanendo però in una struttura ritmica quasi scientifica, che permette all’ascoltatore di comprendere la bellezza di tutti particolari. È un equilibrio complesso da raggiungere: c’è chi affronta questa musica con un’eccessiva libertà e chi invece la esegue in modo esageratamente ingessato e rigoroso.
Manca ancora la divisione netta tra recitativo e aria, tra il momento dell’azione e quello della contemplazione.
Siamo in un continuum vivacissimo, come succederà in fondo anche con Gluck, quando si abbandoneranno gli schemi dell’opera barocca, che peraltro io adoro. Ma paradossalmente qui troviamo già quel superamento, decenni prima delle forme chiuse dell’aria e del recitativo.
Le regole sui registri cui faceva prima riferimento sembrano fatte per essere violate: in certi passaggi è evidente il contrasto tra i personaggi, in altri invece si tende a una uniformità stilistica. Bisogna puntare sul contrasto o sull’uniformità?
La genialità di Monteverdi deriva dal fatto che a volte c’è una estrema differenza nel rapporto tra due personaggi, mentre altre volte c’è qualcosa che li accomuna. Insomma quando crea un contrasto è perché quel contrasto ci deve essere, e quando crea un’uniformità è perché tra i personaggi è sopraggiunta una unità di intenti. Per non parlare naturalmente di tutte le centinaia di piccole figure retoriche che devono essere appannaggio di qualunque musicista che si occupa di questo repertorio.
Nell’opera non mancano scene pastorali. Come si inseriscono all’interno del racconto?
Gli episodi bucolici allora stavano diventando parte integrante di un immaginario arcadico. Sono le cosiddette “boscherecce”, come si legge nel manoscritto. Ce n’è una in cui Minerva è travestita da pastorello, per poi rivelarsi per quello che è, ovvero una dea, con la musica che cambia completamente. Anche il pastore Eumete entra in scena in una boschereccia, in cui però manca la musica, che ho dovuto scrivere io ispirandomi a una pastorale del Seicento. L’intento del librettista e di Monteverdi era evidentemente di ricreare una situazione bucolica che poi muterà improvvisamente con l’ingresso di Iro, che si mette a insultare il pastore. Insomma la musica pastorale serve come sfondo per alcuni effetti drammatici molto evidenti.
Qual è invece il ruolo della meraviglia? Tenuto conto che ci sono anche gli dei.
È una delle componenti più importanti di ogni rappresentazione barocca. Possiamo chiamarla anche sinestesia, perché comprende colori, suoni, odori: lo spettacolo seicentesco non badava certo a spese. Anzi, molto spesso i teatri andavano a fuoco proprio per gli effetti speciali che si utilizzavano. Per quanto riguarda gli dei, Carsen li ha moltiplicati con delle comparse: sono dodici ed entrano dal fondo della sala per posizionarsi nei palchi di un teatro ricostruito sul palcoscenico, come se fosse uno specchio. Questo loro ingresso trionfale è un vero e proprio effetto di meraviglia fatto con i mezzi di oggi, per cui abbiamo deciso di aggiungere una sinfonia non presente nel manoscritto.
Insomma avete costruito insieme lo spettacolo.
In un’opera del Seicento ci sono sovente situazioni che richiedono musica supplementare per cambi scena o spostamenti. Carsen ha detto subito di non volere uno spettacolo prêt-à-porter, ma uno spettacolo fatto su misura sul luogo e sui cantanti. Ovviamente sono d’accordo con lui.
Come si rapporta alle tradizioni esecutive recenti di questo repertorio?
Semplicemente non le conosco, perché non ascolto mai nessun disco. Da ragazzo ascoltavo Harnoncourt, che è stato fondamentale nella storia dell’esecuzione moderna della musica antica. Ma credo che un interprete non debba tanto rifarsi a una tradizione, quanto occuparsi di essere preparato da un punto di vista estetico. Io non sono di quelli che dicono che bisogna per forza usare strumenti antichi per assomigliare a un ipotetico ideale dell’epoca impossibile da raggiungere. Ma è certo che più informazioni si hanno, più si prende coscienza di quello che poteva essere il desiderio del compositore: perché è nella testa del compositore che si trova la soluzione più bella e più espressiva, quella che potrebbe emozionare ancora un pubblico di quattrocento anni dopo.
Immagine di copertina di Michele Monasta-Maggio Musicale Fiorentino